di Pietro Emiliani
E’ la mattina di sabato 5 Marzo 2016.
Manuel Foffo, 29 anni, esce di casa per andare al funerale dello zio Rodolfo. Qualcosa di diverso è inciso sul suo volto: una faccia gonfia e stanchissima, occhi rossi che non trasmettono sensazione alcuna.
Alcuni dei famigliari di Manuel si accorgono che qualcosa non quadra, ma nessuno osa domandare tranne gli occhi guardinghi del fratello Roberto che controllano Manuel lungo il tragitto per Bagnoli del Trigno, paesino d’origine dello zio. E’ qui che la tragedia ha inizio: seduto in macchina con il padre, Manuel confessa di aver ucciso una persona nella casa di famiglia in via Igino Giordani n.2.
Il padre Valter non capisce, è incredulo. “Abbiamo ucciso una persona” vocifera Manuel con le lacrime agli occhi, affermando di non ricordare il nome della vittima. E’ sotto effetto di cocaina da diversi giorni, e quella notte, insieme a lui, c'è un’altra persona: Marco Prato. Il corpo della vittima è ancora in casa.
Valter non ci pensa due volte: fa inversione di marcia e chiama il suo amico e avvocato Michele Andreano che si precipita immediatamente la notte stessa nell’ufficio di Valter.
Sono in tre in quella stanza: Valter, Manuel e Roberto e appena Michele, entrando, incrocia lo sguardo di Manuel, capisce subito in che situazione sta per essere invischiato. “Sembrava fatto, strafatto, fattissimo”[1].
Da lì a poco Michele Andreano realizza di trovarsi davanti uno dei casi di cronaca nera più importante degli ultimi anni.
*
Nessun simbolo masticava il suo sguardo
nessuna posa o pentimento,
semplicemente era lì
abitato dal panico di chi ha scavalcato il senso
e non sa più come tornare indietro.
Il suo sguardo era la vertigine del vuoto
l’arteria del male scoppiata per caso
nella notte di una Roma crudele e incustodita.
Manuel era l’ondulazione di una colpa
estranea al suo gesto,
guardava al suo crimine
come a un mero dato oggettivo.
“Mi voglio costituire”
esplose come un’emorragia nella stanza
il suo peccato di disamore.
a sinistra Manuel Foffo e a destra Marco Prato
Manuel ha 29 anni ed è uno studente universitario di giurisprudenza. Tutti lo descrivono come un ragazzo “normalissimo e tranquillissimo, bravissimo”. Lavorava dal padre al ristorante “dar Bottarolo”, ma presto lo abbandona per dedicarsi ad una start up di calcio per reclutare giovani professionisti.
Purtroppo il progetto non va a buon fine e Manuel, in un periodo difficile e stressato, inizia a trascurarsi, a bere e sniffare cocaina. In più, il suo rapporto con il padre Valter è segnato dai conflitti: davanti ai pm racconta i litigi e gli episodi di noncuranza ed estromissione da qualsiasi progetto lavorativo; progetti in cui invece il fratello Roberto rientra sempre. Manuel è frustrato, pieno di rabbia per un padre che lo giudica costantemente e lo descrive come il sosia della madre Daniela: “Se crolla lei, crolla anche Manuel”.
Porta davanti i pm diversi esempi di come il padre abbia rappresentato un alibi per le sue difficoltà.
Manuel però quella notte era lucido, sapeva cosa stava facendo, voleva provare qualcosa che non aveva mai provato in vita sua. Lo fece per il padre, disse, per vendicarsi dei dispiaceri accumulati negli anni.
“Allora forse vuol dire che lo stress, la cocaina, l’alcool e tutta questa incomprensione, un giorno m’ha fatto sbroccà e ho fatto quello che ho fatto”.
*
“Chi è allora il suo punto di riferimento nella vita?
chiese imparziale il pubblico ministero
“Nessuno”
rovesciò il suo dolore sul banco d’imputazione
come una carcassa da disossare
mostrando che un uomo estromesso dall’amore
è una ragnatela di ruggine,
quella casa abbandonata dove è meglio non sostare.
Manuel invece entrò nel sangue senza bussare
e Luca divenne il rito
la celebrazione violenta delle sue mancanze.
“Ogni volta che pippavo
pensavo al dolore che mi porto dentro.
Sono sempre stato un incompreso”
Luca viene ucciso la notte del 4 Marzo. Manuel e Marco non erano amici, si conobbero l’1 gennaio dello stesso anno e si ritrovarono per caso sullo stesso destino . La loro unica colpa fu quella di conoscersi.
Mercoledì 2 Marzo i due ragazzi si chiudono in casa di Manuel con alcool e cocaina: s’instaura subito un rapporto intimo e personale in cui Marco, omosessuale, si trasforma nella sua “bambolina” sessuale.
I giorni passano lenti e sregolati, c’è molto disordine in casa, le tapparelle abbassate, e i due ragazzi, sempre più alterati (arrivano a consumare fino a 1500 euro di cocaina in tre giorni) invitano a casa diverse persone per realizzare fantasie perverse, tra cui quella di violentare una persona.
L’unico che accetta l’invito è Luca Varani: un giovane eterosessuale che di giorno fa il meccanico e di notte la “marchetta”. Quella sera accetta per soli 150 euro. Marco, travestito da donna, offre da bere a Luca che subito accetta. Non sa che nel cocktail ha versato l’Alcover (un farmaco per il trattamento alcolico che, ingerito con l’alcool, provoca nausea e svenimento) con lo scopo di stordirlo e abusarne sessualmente.
Appena Luca beve, si sente male e corre in bagno. Lì ha inizio la tragedia. Manuel e Marco lo torturano con lo scopo di ucciderlo, le versioni su chi ha infierito maggiormente divergono ma dall’autopsia emerge che sul suo corpo sono stati inflitti circa cento colpi, fra coltellate e martellate.
Luca muore per dissanguamento: un’agonia durata per più di due ore. Luca ha lottato fino alla fine.
Luca non voleva morire.
*
“Voleva vivere tantissimo, non sapevamo come fare”
spiegò Manuel senza esitare al ricordo di Luca
al suo sorriso che ora era un taglio sul torace,
quella forza meccanica spinta oltre la sopravvivenza
oltre la materia del possibile.
Luca respirava ancora atomi di libertà
mentre il mondo veniva spellato vivo
dal suo sguardo lasciato orfano sul pavimento.
Il senso si rovesciò sul suo corpo
come un temporale estivo
e Manuel strappò via le tende del suo futuro
stringendo la tragedia fra le dita.
Dissanguata la realtà
si addormentò esausto per sognare una nuova vita.
Luca Varani
[1] Estrapolate dagli interrogatori e testimonianze presenti in Città dei vivi, Nicola Lagioia, Einaudi 2020
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