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CORPI IPERTESTUALI - La narrazione nell'epoca di Internet

1992: La fine del libro


Il 12 giugno del 1992 le colonne della sezione letteraria New York Times riportavano una profezia: in breve tempo il libro sarebbe morto tanto quanto lo era Dio. Così pure il romanzo. A dirlo era Robert Coover, professore all’epoca settantenne della Brown University, il quale aggiungeva che il primo nascituro della nuova stirpe era stato concepito su floppy disk nel 1987. Si trattava di afternoon, a story[1], scritto da Michael Joyce prima della nascita del World Wide Web con un nuovo programma di scrittura chiamato Storyspace. L’autore, uno dei progettisti del software, proponeva un testo corredato da una barra di comandi quali yes, no, go e back, attraverso i quali il lettore poteva interagire con la narrazione. Grazie all’utilizzo di questi comandi si svolgeva la storia frammentaria di un uomo che avrebbe assistito ad un incidente automobilistico in cui erano coinvolti la moglie ed il figlio. Il concetto di narrazione non lineare era dunque entrata nel mondo dei media digitali attraverso l’ipertesto:


A differenza del testo a stampa, l’ipertesto offre percorsi molteplici attraverso i vari segmenti di testo; ora chiamati sempre più spesso “lessie” termine preso in prestito dal pre-ipertestuale quanto preveggente Roland Barthes[2]. Grazie alla sua rete di lessie interconnesse e di percorsi alternativi (in opposizione all’immutabile unidirezionalità del testo stampato), l’ipertesto presenta una tecnologia radicalmente differente, interattiva e polifonica, che privilegia una pluralità di discorsi rispetto all’affermazione definitiva e che libera il lettore dalla dominanza dell’autore. Si dice quindi che il lettore e lo scrittore di ipertesti diventino co-lettori e co-scrittori, come se fossero compagni di viaggio nella mappatura e ri-mappatura delle varie componenti testuali (e visuali, cinetiche, aurali), le quali non sono tutte messe a disposizione da colui che era solito chiamarsi l’autore[3].


La poligrafia del cavaliere applicata al romanzo La vita istruzioni per l'uso (1978) di Georges Perec. Il movimento del narratore attraverso le stanze dello stabile è quello di un cavallo degli scacchi che attraversa tutta la scacchiera senza passare mai due volte sulla stessa casella. Come si può notare una delle caselle – ovvero una della cantine – è stata tralasciata dall’autore.

Senza dubbio le possibilità di una letteratura non lineare erano già state esplorate in opere cartacee come Fuoco Pallido (1962) di Nabokov, il coevo Composizione n.1 di Marc Saporta, Rayuela (1963) di Cortázar o Vita: istruzioni per l’uso (1978) di Perec. Volendo andare ancora più a ritroso potremmo citare anche La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (1767) di Sterne. Un esempio per quanto riguarda la poesia potrebbe essere Cent mille milliards de poèmes (1961) di Queneau.


L’idea alla base di queste opere è quella di sviluppare una narrazione che non tenga conto di rapporti temporali o causali e che coinvolga il lettore in una modalità attiva di lettura. Questa lettura partecipata può implicare la scelta di un arco narrativo che copre solo una parte dell’intera vicenda oppure la lettura solo di alcune parti dell’opera (senza che però questo atto comporti una percezione deficitaria del testo). Implicitamente tutto ciò mette il lettore di fronte all’evidenza che in ogni testo sua è la mano che mette in moto la trottola della narrazione. Suo è il compito della costruzione degli avvenimenti; non della ricostruzione, come invece avviene nel romanzo modernista (si pensi ad esempio alla Coscienza di Zeno (1923) di Svevo). Indubbiamente, sia che si tratti di opere moderne o postmoderne, autore e lettore sono estremi del luogo evocato dal testo, appendici viventi connesse al mondo finzionale evocato dal testo, come ci confessa Shelley Jackson:


Nel non-luogo dell’ipertesto c’è finalmente spazio per muoversi, come un orifizio in cui possa infilare il mio corpo per intero, invece che solo il mio dito o la mia p-p-p-penna. Adoro i libri, ma non mi calzano molto bene, sia da scrittrice sia da lettrice c’è sempre una parte di me che immancabilmente penzola al difuori, come una massa, un’escrescenza, qualcosa che l’editor avrebbe dovuto troncare e per la quale mi sento sempre un po’ dispiaciuta[4].

È importante sottolineare come il medium sia centrale nel differenziare i testi citati precedentemente dagli ipertesti: fino a quando si era trattato di opere tradizionali, relegate all’impossibilità materiale di astrarsi dal loro supporto fatto di pagine ordinate e inamovibili, il senso di questi lavori risiedeva nella sfida alla convenzione letteraria e al supporto del libro stesso. Al contrario, in opere come quelle che affronteremo, concepite all’interno di piattaforme che prevedevano questa ipertestualità (e non linearità) come forma nativa, si trattava di esplorazioni di territori sconosciuti o dell’innalzamento di architetture nuove che, proprio a causa dei limiti dei materiali impiegati, mai prima di quel momento era stato possibile progettare.


Nessun centro fisso, dal quale iniziare – e al contempo nessun limite, nessun termine o confine. La linea temporale tradizionale della narrazione svanisce in un orizzonte geografico o in un labirinto senza uscita, nel quale gli inzi, le metà e i finali non sono più manifestazioni immediate. Invece abbiamo: opzioni ramificanti, menu, segnali della presenza di link e reti mappate. Non ci sono gerarchie in queste reti senza fine (e senza fondo), dal momento che i paragrafi, i capitoli e le altre divisioni convenzionali del testo sono rimpiazzate da finestre di testo e grafiche altrettanto autonome ed effimere – le quali verranno presto implementate dall’aggiunta di suoni, animazioni e filmati[5].

Vale la pena analizzare anche gli aspetti critici di questo supporto, perché senza dubbio l’ipertesto si configura come un paesaggio nuovo ed estremamente rigoglioso, ma costitutivamente privo di punti di riferimento grazie ai quali muoversi. Tutti gli studiosi, compresi i sostenitori più accaniti di queste pratiche, notano infatti come una carenza cronica dell’ipertesto sia rappresentata appunto dall’assenza di punti fissi e dalla frustrazione che ne deriva, pur avendo abbandonato (al massimo della possibilità di ognuno) ogni tipo di aspettativa o di procedura interpretativa canonica. Prendiamo per esempio lo strumento del cronotopo di Bachtin, che senso ha applicare un metodo le cui coordinate portanti sono legate allo spazio e al tempo in quanto entità fisiche a un mondo finzionale che non è soggetto alle stesse leggi? Per continuare, ci si potrebbe chiedere come sia possibile per il lettore determinare la chiusura o la fine del testo, essendo questa una categoria che non appartiene a questo tipo di letteratura. Una delle risposte fornite è che il lettore considera il testo finito non quando tutte le lessie sono state lette, ma quando si considera soddisfatto, ovvero quando pensa di conoscere sufficientemente il testo o di aver raggiunto il climax della storia.


Ricollegare queste esperienze alla storia canonica della letteratura è una necessità, perché ci consente di ottenere nuovi strumenti per analizzare e ripensare ciò che già conosciamo e che riteniamo scontato. quale cultura potrebbe fare o farà propria la narrazione ipertestuale, forma di narrazione non lineare, priva di nessi temporale e causali?


Le rovine del palazzo imperiale del Khan


Nonostante la nutrita schiera di antecedenti letterari citati precedentemente, nessuno tra questi titoli o autori fu un’influenza diretta nella nascita della letteratura ipertestuale. È possibile infatti individuare il padre spirituale di questo momento nella storia della letteratura in Theodore Holm Nelson, meglio noto come Ted Nelson. Figura tanto influente quanto controversa, nel 1960 diede avvio al Progetto Xanadu, il cui nome deriva dal nome della capitale del regno dell’imperatore mongolo Kublai, come riportato nel breve poema Kubla Khan di Samuel Coleridge.


Xanadu nacque originariamente come strumento per la fruizione di documenti e nello specifico di letteratura: il progetto prevedeva infatti la creazione di un’enorme banca dati ipertestuale (chiamata Xanadu Docuverse, da document + universe) che permettesse la lettura comparata ed incrociata di un testo qualsiasi con tutte le sue fonti ed i suoi apparati nel medesimo momento. I testi come li conoscevamo sarebbero diventati così Ipertesti, come ci illustra l’inventore di questo termine:


Ipertesto: una nuova forma di scrittura che appare sugli schermi dei computer, la quale si espanderà ed agirà al comando del lettore. L’ipertesto è un pezzo di scrittura non sequenziale; solamente lo schermo del computer lo rende pratico. È qualcosa a metà tra un libro, uno spettacolo televisivo e un gioco da sala giochi, l’ipertesto è un vasto arazzo d’informazioni[6].


Illustrazione tratta da Computer Lib/Dream Machines (1974) di Ted Nelson.

L’idea alla base di questa visione era quella di replicare quello che secondo Nelson era lo schema cognitivo umano, nel quale le informazioni sono collegate su più livelli e in più direzioni e notabilmente non intrattengono rapporti lineari o gerarchici tra di loro. Il progetto prevedeva di immagazzinare i vari documenti non come file separati ma come letteratura interconnessa e, a loro volta, questi documenti sarebbero dovuti rimanere accessibili per un tempo potenzialmente infinito; al riparo da ogni danneggiamento, modifica o censura da parte di chiunque non ne fosse l’autore. In ultimo nel Docuverso Xanadu ognuno avrebbe potuto creare copie virtuali di ogni possibile collezione di informazioni esistente nella piattaforma senza problemi di copyright. Per fare ciò il sistema si proponeva di garantire al possessore di un qualsiasi documento il pagamento da parte dell’utilizzatore per la porzione di testo prescelta, indipendentemente dalla grandezza o dall’utilizzo finale. È quasi inutile sottolineare come all’epoca, e ancora per decine di anni dopo, un progetto del genere non fosse assolutamente realizzabile sul piano pratico.


Xanadu avrebbe potuto rappresentare un’alternativa alla navigazione in rete come la conosciamo, principalmente in quanto composto di link percorribili in entrambe le direzioni, cosa che avrebbe permesso al fruitore di risalire sempre alla fonte del contenuto che stava visualizzando o utilizzando. Il World Wide Web che noi infatti utilizziamo è basato sul linguaggio HTML (HyperText Markup Language) il quale non collega tra di loro testi, pagine o siti, ma semplicemente reindirizza l’utente alla pagina web dove la risorsa dovrebbe esistere. Dal momento che gli indirizzi URL vengono cambiati periodicamente, questo collegamento si spezza, oltretutto, bisogna sottolineare l'unidirezionalità di questi link. Per dirla con le parole di Nelson:


Today's popular software simulates paper. The World Wide Web (another imitation of paper) trivializes our original hypertext model with one-way ever-breaking links and no management of version or contents.

Nell’arco dello sviluppo del progetto, che si trascinerà per decenni con sorti alterne per finire nel nulla nella seconda metà del 2010, vengono alla luce due titoli estremamente influenti: Computer Lib/Dream Machines (1974) e Literary Machines (1981). Il primo rappresenta una vera e propria trasposizione di un pensiero non lineare su carta, a partire dal formato: il libro era bifronte e a metà del libro i due testi si incontravano senza soluzione di continuità. All’interno poi era possibile trovare una miriade di frammenti riguardanti le più disparate considerazioni su filosofia, società e informatica. Computer Lib.You can and must understand computers NOW tratta della ribellione che l’utente – tramite lo studio dell’utilizzo dei computer - dovrebbe sollevare nei confronti dello strapotere dei progettisti e programmatori, che imponevano la loro visione iperscientifica e settaria a ciò che secondo l’autore sarebbe stata la tecnologia che avrebbe cambiato le nostre vite.


Per quanto riguarda l’altro lato, Deam Machines. New Freedom through Computer Screens - a Minority Report vi si sosteneva che la portata di queste tecnologie nascenti non era da misurarsi tramite la potenza di calcolo, ma invece tramite la possibilità di creare nuovi media. Nelson passava poi in rassegna con i suoi commenti il lavoro di persone che l’avevano preceduto in questa concezione, aggiungendo a sua volta i propri pensieri. In questo lato venivano infatti utilizzate per le prime volte in ambito di pubblicazioni divulgative le parole Hyperlink e Hypertext, così come veniva per la prima volta esposto al pubblico il progetto Xanadu. Il secondo libro, Literary Machines, rappresenta invece il tentativo più tecnico e deliberatamente divulgativo – se non commerciale - di esporre al pubblico come gli ipertesti e la loro realizzazione all’interno del progetto Xanadu avrebbero potuto modificare la nostra percezione e creazione della letteratura, di come appunto sarebbero potuti diventare dei nuovi media comprendenti testi, video, audio e foto: gli Hypermedia.


La parabola di Ted Nelson e del suo progetto Xanadu termina nell’oblio, e la relativa oscurità delle sue idee e delle sue proposte è eloquente nei confronti del suo lascito, almeno per adesso, al mondo. Il nome Xanadu fu veramente oracolare: ispirato da un testo famoso tanto per la sua brillantezza quanto per non essere mai stato completato ed il cui sottotitolo è Visione in un sogno.


All bodies are written bodies, all lives pieces of writing


Sarei lieta di presentarvi un altro tipo di romanzo, patchwork girl, una creatura che è completamente soddisfatta dall’essere un giro di caleidoscopio, un cadavere squisito, un campo dove le copule copulano, la possibilità dell’incontro tra un ombrello e una macchina da cucire su di un tavolo operatorio. L’ipertesto[7].


Alcune finestre di testo dell'opera Patchwork girl (1995) di Shelley Jackson.

Di primo acchito risulta curioso come uno degli ipertesti ritenuti capitali della letteratura elettronica - questa branca della letteratura completamente smaterializzata e dal carattere fortemente metariflessivo e narratologico – abbia fatto del corpo fisico, in tutta sua debolezza e incompletezza, il suo punto focale. L’opera in questione è Patchwork girl (1995) di Shelley Jackson, scritta come diverse altre su Storyspace e pubblicata da Eastgate Systems. Nell’approccio a quest’opera, la prima cosa che si presenta sullo schermo al lettore è l’immagine di una donna smembrata e ricucita, tracciata in bianco su un fondo nero: Patchwork girl. Cliccando sull’immagine si apre il frontespizio dell’opera; l’impostazione grafica di questa prima pagina ricalca fedelmente quella di un qualsiasi libro, ma la somiglianza termina qui: molte delle parole che la compongono sono link che permettono di accedere alle diverse parti dell’opera, inoltre questa pagina non nasconde nient’altro che la vera natura del testo, ovvero quello di una mappa venata da numerose diramazioni (la scelta se iniziare a fruire il testo nell’una o nell’altra maniera è lasciata al lettore).


Si può già osservare nel frontespizio come l’autorialità del testo sia frammentata e messa in discussione, infatti, in luogo dell’autore la pagina riporta: Mary/Shelley & Herself. Sarebbe a dire: Mary Shelley, autrice del romanzo Frankenstein (1818), del quale l’opera della scrittrice, Shelley Jackson, rappresenta una continuazione attraverso lo sviluppo dell’episodio della creazione di una controparte femminile per il mostro: Patchwork girl herself, protagonista e autrice al tempo stesso.


L’episodio di cui si fa menzione narra di come il mostro, essendosi reso conto di quanto gli esseri umani possano trovarlo repellente, torni dal dottor Frankenstein per chiedergli con le minacce di creare una compagna per lui. Il dottore acconsente e crea la donna mostruosa ma, nel momento in cui avrebbe dovuto darle la vita, viene paralizzato dalla vista del corpo, dalla terribile idea dell’accoppiamento dei due mostri e della prole che ne nascerà. Approfittando della distrazione del mostro, il dottore fa di nuovo a pezzi la donna per gettarne successivamente le parti in mare.


Proprio dalla ricomposizione di questo mostro femminile prende le mosse l’opera di Shelley Jackson, appropriandosi dei pezzi gettati via dal dottor Frankenstein tanto quanto del testo di Mary Shelley. Coerentemente con queste premesse, il corpo del testo è diviso in diverse sezioni congiunte insieme da link, ma questo presunto testo “integrale” è però composto a sua volta di frammenti, voci sparse, citazioni di altre opere. Le diramazioni principali di questo corpus ipertestuale sono:


- Body of text: In questa sezione vengono raccontati il viaggio in America del mostro femminile e le sue disavventure che culminano con una morte per disintegrazione dopo 175 anni di vita. Nella sezione la narrazione si intreccia a una serie di riflessioni sulla natura dell’ipertesto e quella del corpo umano.

- Graveyard: Qui, attraverso le varie parti anatomiche usate per creare Patchwork girl, sono raccontate le storie delle creature che le ebbero a loro tempo fornite.

- Story: In questa parte sono raccolti alcuni stralci rilevanti del testo originale di Frankenstein assieme alle successive avventure del mostro donna

- Journal: Vi è contenuto il diario finzionale di Mary Shelley, nel quale lei annota le sue interazioni con il mostro femminile. In questo diario viene scritto di come Mary stessa abbia portato alla vita il mostro femminile e di come le due siano divenute amanti

- Crazy quilt: Questa porzione di testo raggruppa degli stralci dell’opera Patchwork Girl of Oz (1913) di Frank Baum, assieme a porzioni di altri testi provenienti da fonti disparate come volumi di teoria della letteratura o il manuale utente di Storyspace.


Le vicende di questo corpo mostruoso sono affidate ad un corpo - quello testuale che le veicola - altrettanto frammentario; composto di pezzi di recupero e di scarto, magnificamente e volutamente disfunzionale. Questo ipertesto, composto da 326 lessie (ossia porzioni di testo indipendenti) costituite sia da caratteri sia da immagini è attraversato da 462 link, le cicatrici e i punti di sutura che segnano al contempo disgiunzioni e nuove unioni; in quest’opera testo e corpo sono trattati alla stessa stregua, quella dei tessuti rammendati, delle trapunte che uniscono nuovi ricami e vecchie stoffe. Il corpo nell’opera della Jackson si legge attraverso la metafora del testo e del cucito, è testo in quanto corpo testuale e in quanto insieme rapsodico di parole cucite insieme. In questa visione la scrittura diventa cucito e il cucito scrittura. Ognuna delle sezioni elencate precedentemente si apre con una variante rimescolata dell’immagine di Patchwork girl della schermata iniziale; Shelley Jackson vuole infatti - attraverso la costante preminenza del corpo e della sua immagine - sottolineare l’alterità di questo nuovo media e le sue capacità espressive:


Entriamo dunque all’interno di questi blocchi testuali attraverso un’immagine corporea, che implica che il testo risiede nel corpo rappresentato. Questa dinamica inverte la solita percezione che il lettore intrattiene con la narrativa stampata, ovvero che i corpi che vi sono rappresentati risiedono all’interno del libro. Nella narrativa a stampa, spesso il libro come oggetto fisico sembra svanire man mano che l’immaginazione del lettore ricostruisce il vaporoso mondo del testo, in maniera tale che la lettura, come affermato da Friedrich Kittler, diventa una sorta di allucinazione. Prima viene la mente immateriale e da qui vengono poi distribuite immagini di esseri fisici. In quest’opera, al contrario, il corpo non è il risultato di un lavoro immateriale, ma un portale verso di esso, invertendo dunque la consueta gerarchia che vede la mente al primo posto [8].

La riabilitazione del corpo, l’inversione della tendenza del testo scritto che vorrebbe vedere la mente prima del fisico sono gli scopi principali di quest’opera e con questa consapevolezza possiamo tornare alla considerazione iniziale. Se la volontà è di scardinare il predominio della mente attraverso la scrittura narrativa, ovvero il reame della linearità, della consequenzialità e della causalità, questo è possibile solo grazie all’utilizzo di un nuovo supporto come l’ipertesto, dove queste leggi non sussistono necessariamente; l’ipertesto è il luogo dove l’ego dell’autore e del lettore si perdono per trovarsi di fronte ai loro corpi:


Neppure il corpo viene percepito come un insieme. Non lo vediamo mai per intero, non possiamo percepire il nostro fegato che lavora o i messaggi che fanno la spola attraverso la nostra colonna vertebrale. Cuciamo insieme un corpo fantasma da brandelli di una cacofonia di impressioni sensibili, visioni accecanti e parziali. […] Il corpo originario è dissociato, poroso e privo di pregiudizi, un generoso acchiappa-tutto. La mente, dall’altro lato, o piuttosto il pensiero discorsivo, ciò che lo zen chiama la mente-scimmia e Bataille il progetto, ha un’ossessione quasi catatonica per la stasi, la centralità e l’unità. Il progetto vorrebbe il corpo come effige commemorativa di sé o come il proprio golem, sobrio testamento dei valori della mente e servo infaticabile. Ma questa statua non esiste se non nella mente, un nocciolo duro che sembra un tumore, impiantato nel portale verso il corpo a bloccare la luce. Il progetto della scrittura e ugualmente il progetto della vita, è quello di dissolvere quel tumore. Il progetto è smantellare il progetto. Ovverosia interrompere, scardinare, disattivare il processo per il quale la mente, mentre glorifica se stessa per la propria ferma stretta su ciò che desidera includere nella realtà, gradualmente la rimpicciolisce, e sostituisce un’effige a quella complicata macchina per l’inclusione e per l’effusione che è il sé [9].

L’anatomia di Patchwork girl è costituita da parti che all’interno del sistema mantengono la loro singolarità e la loro specificità, il ricordo della loro vita passata. Il suo è un corpo che esiste nel tempo - nel XIX sec. in cui Mary Shelley le dà vita – e, come sottolinea Katherine Hayles, dall’opera della Jackson emerge un essere che mette in crisi la concezione filosofica coeva del soggetto come individuo dotato di una personalità unica e dell’abilità di possedere la propria persona. Il corpo del mostro donna viene pazientemente rammendato come era uso fare per le donne dell’epoca e viene salvato dalla fine violenta riservata alle donne che nel romanzo shelleyeano erano legate al dottor Victor: la madre, la servetta Justine, l’amata Elizabeth e ovviamente la compagna stessa del mostro[10]. Si tratta da parte di Shelley Jackson della creazione e della celebrazione compartecipata di un corpo che incarna la concezione femminile dell’autrice, un corpo polifonico dove tutte le qualità tradizionalmente negative come l’incompletezza, la porosità, l’assenza di gerarchie e di un’identità specifica diventano caratteristiche positive, nel senso etimologico della parola, attraverso le quali ricostruire e ripensare il corpo in assoluto.


Da molti lettori è stato notato inoltre il carattere fortemente simulacrale della figura della protagonista dell’opera (ancora più marcato che in Frankenstein) che la scrittrice stessa ricollega alla dicotomia sempre in tensione tra le specificità del medium e l’oggetto dell’opera:


L’ipertesto è schizofrenico: è impossibile dire cosa sia originale e cosa una citazione. Le gerarchie si smontano in catene di somiglianze, una cosa non è più presente di quanto lo sia ciò che la cosa ti ricorda; questo fa si che tu possa scivolare fuori da un testo in una nota a piè di pagina, ritrovandoti a leggere un testo completamente diverso del quale il tuo testo originario è la nota a piè di pagina[11].

Il climax della vicenda di Patchwork girl viene raggiunto nella momento in cui Mary e il mostro, divenute amanti e avendo conosciuto l’intimità propri corpi, decidono di scambiarsi un lembo di pelle. Ognuna delle due rimuove un cerchio di pelle dalla propria gamba che cuce reciprocamente sulla gamba dell’altra. Questa scena rappresenta l’apice passionale ed emotivo dell’opera e al contempo il vertice metanarrativo della storia: Mary è la creatrice del mostro in un senso duplice, nel cucirla e nello scriverla e a sua volta esiste duplicemente come personaggio e come persona. Questa scena sembra presagire ciò che Shelley Jackson fece nel 2003 dando vita al progetto Skin (ad oggi incompiuto, ma se ne può trovare un breve montaggio qui): una storia scritta sul corpo di 2095 volontari, i quali dovranno tatuarsi la parola assegnata e da quel momento in avanti diventeranno parole a loro volta. Le persone/parole sono da considerarsi come incarnazioni della parola stessa e, se il tatuaggio dovesse essere danneggiato o eliminato per un qualsiasi motivo, la parola continuerebbe ad esistere nella storia. La storia potrà subire delle variazioni solo con la morte di chi le incarna e vedrà il suo termine naturale alla morte dell’ultima parola rimasta. L’autrice ci fa sapere che farà ogni sforzo possibile per partecipare al funerale di ogni parola.


Ted Nelson immaginava per la sua rete un tessuto senza soluzione di continuità, senza rammendi. Patchwork girl in questo senso è la presa di coscienza che questo tessuto non può esistere, è una glorificazione delle lacerazioni e delle loro suture, una risposta al crollo dell’utopia di un mondo integro. Questo testo rappresenta una riflessione sul come utilizziamo la tecnologia dell’informazione e i vari tipi di memoria prostetica per concepire noi stessi ma la contempo contiene una risposta positiva alla frammentazione del mondo, un passo verso l’accettazione e la convivenza col nostro stato esistenziale di esseri privati dell’armonia.


 

[1] Joyce, M., afternoon, a story, Eastgate Systems (1990). Scritto nel 1897 e pubblicato nel 1990 venne commerciato lungamente su floppy disk. Attualmente è in vendita sul sito di Eastgate su chiavetta USB spedita a domicilio. Sembra sia stato tradotto in italiano nel 1993 e distribuito dalle case editrici Castelvecchi/Synergon in abbinamento all’opera Ra-dio di Lorenzo Migliorini. Si noti come all’epoca questi lavori venissero chiamati “Elettrolibri”. [2] Cfr. Barthes, R., S/Z (1973), Einaudi, Torino. Per lessie si intende porzioni di testo indipendenti. [3] Unlike print text, hypertext provides multiple paths between text segments, now often called "lexias" in a borrowing from the pre-hypertextual but prescient Roland Barthes. With its webs of linked lexias, its networks of alternate routes (as opposed to print's fixed unidirectional page-turning) hypertext presents a radically divergent technology, interactive and polyvocal, favoring a plurality of discourses over definitive utterance and freeing the reader from domination by the author. Hypertext reader and writer are said to become co-learners or co-writers, as it were, fellow-travelers in the mapping and remapping of textual (and visual, kinetic and aural) components, not all of which are provided by what used to be called the author. Coover, R., The end of books, New York Times, 21 giugno 1992. [4] In the no-place of hypertext, there's finally room to move around, like an orifice I can fit my whole body into, instead of just my finger or my p-p-p-pen. I adore the book, but I don't fit into it very well, as a writer or a reader, there's always some of me hanging untidily outside, looking like a mess, an excrescence, something the editor should have lopped off and for which I feel a bit apologetic. Trascrizione dell’intervento di Jackson, S., Stitch Bitch, all’interno della conferenza Transformations of the Book tenutasi al MIT il 24 ottobre 1998. [5] No fixed center, for starters -- and no edges either, no ends or boundaries. The traditional narrative time line vanishes into a geographical landscape or exitless maze, with beginnings, middles and ends being no longer part of the immediate display. Instead: branching options, menus, link markers and mapped networks. There are no hierarchies in these topless (and bottomless) networks, as paragraphs, chapters and other conventional text divisions are replaced by evenly empowered and equally ephemeral window-sized blocks of text and graphics -- soon to be supplemented with sound, animation and film. Coover, R., The end of books [6] Hypertexts: new forms of writing, appearing on computer screens, that will branch or perform at the reader’s command. A hypertext is a non-sequential piece of writing; only the computer display makes it practical. Somewhere between a book, a TV show and a penny arcade, the hyper text can be a vast tapestry of information. Nelson, T., Hypertext Notes (1967). [7] I would like to introduce a different kind of novel, the patchwork girl, a creature who's entirely content to be the turn of a kaleidoscope, an exquisite corpse, a field on which copulas copulate, the chance encounter of an umbrella and a sewing machine on an operating table. The hypertext. Trascrizione dell’intervento di Jackson, S., Stitch Bitch, all’interno della conferenza Transformations of the Book tenutasi al MIT il 24 ottobre 1998. [8] Thus we enter these textual blocks through a bodily image, implying that the text lies within the represented body. This dynamic inverts the usual perception the reader has with print fiction, that the represented bodies lie within the book. In print fiction, the book as physical object often seems to fade away as the reader's imagination re-creates the vaporous world of the text, so that reading becomes, as Friedrich Kittler puts it, a kind of hallucination. The bodies populating the fictional world seem therefore to be figments of the reader's imagination. First comes the immaterial mind, then from it issue impressions of physical beings. Here, however, the body is figured not as the product of the immaterial work but a portal to it, thus inverting the usual hierarchy that puts mind first. Hayles, N. K., Flickering Connectivities in Shelley Jackson's Patchwork Girl: The Importance of Media-Specific Analysis (2000) [9] The body is not even experienced as whole. We never see it all, we can't feel our liver working or messages shuttling through our spine. We patch a phantom body together out of a cacophony of sense impressions, bright and partial views. […] The original body is dissociated, porous and unbiased, a generous catch-all. The mind, on the other hand, or rather discursive thought, what zen calls monkey-mind and Bataille calls project, has an almost catatonic obsession with stasis, centrality, and unity. Project would like the body to be its commemorative statue or its golem, sober testament to the minds' values and an uncomplaining servant. But the statue doesn't exist except in the mind, a hard kernel like a tumor, set up in the portal to the body, blocking the light. The project of writing, the project of life, even, is to dissolve that tumor. To dismantle the project is the project. That is, to interrupt, unhinge, disable the processes by which the mind, glorying in its own firm grip on what it wishes to include in reality, gradually shuts out more and more of it, and substitutes an effigy for that complicated machine for inclusion and effusion that is the self. Jackson, S., Stitch Bitch, [10] Cfr. Guidotti, F., Patchwork Girl: anatomia ipertestuale di un mostro a pezzi (2012) in “Elephant & Castle” [11] Hypertext is schizophrenic: you can't tell what's the original and what's the reference. Hierarchies break down into chains of likenesses, the thing is not more present than what the thing reminds you of; in this way you can slip out of one text into a footnoted text and find yourself reading another text entirely, a text to which your original text is a footnote. Jackson, S., Stitch Bitch.




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