Terzo classificato della II edizione del concorso per racconti inediti, ispirato ad un'illustrazione originale di Veronica Villa
Titolo: Dentro il dipinto Autore: Giulio Iovine
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Tutti in paese m’invidiano il cugino Gerlando, perché – dicono – è uno che si sa divertire e, se gli stai simpatico e ti si prende a carico (io direi più ‘ncuollo, ma è perché sono cinico, lasciatemi perdere) fa divertire anche te. La faccenda mi ha sempre lasciato poco convinto, specie da quando il cugino Gerlando mi ha chiarito – tenevamo meno di vent’anni in due – cos’è che tutti vorrebbero fare assieme a lui. Non che io non abbia le mie urgenze, come chiunque altro. Ma non sono sicuro che per levarsele, uno debba scendere ai livelli di Gerlando.
Comunque ora di anni ne tengo quasi venti da solo, e ho il problema che questo liceo proprio non lo riesco a finire. Lasciamo perdere Gerlando che a quattordici anni ha detto che era too cool for school – lo ha detto nella nostra parlata mezzo molisana mezzo beneventana, perché stiamo su una montagna che da un lato c’è Bojano, dall’altro Telese – ed è finito nelle statistiche sull’abbandono scolastico nei piccoli centri. Ora che io sia zuccone, passi; ma lui dopo che ha mollato ha fatto robe strane e ogni tanto capita che qualcuno di fuori dal paese lo venga a cercare per dirgli questo e quello, e lui ci tiene a non farsi trovare. Si nasconde – sappiamo tutti dove – finché la tempesta non è passata. E spesso cerca di farlo in compagnia. Questa volta ha chiesto a me, dice che gli mancavo, siamo cresciuti insieme e blabla. Non ho saputo dirgli di no.
Detto fatto mi porta in centro, alla sala polivalente della parrocchia, dove una nostra cugina in terzo grado che è andata all’accademia di Brera a studiare disoccupazione ha fatto la sua prima mostra di quadri. Svicoliamo dentro subito dopo l’orario di chiusura – nel salone non c’è nessuno, solo la penombra della sera e il tramonto che passa dalle finestre. Non ne capisco granché di pittura ma mi pare che la biscugina sappia quello che fa. Ovviamente a Gerlando importa assai dei quadri esposti, o almeno della tecnica con cui sono stati dipinti. Gli interessa unicamente dei soggetti.
“La volta scorsa, mi dice mentre si aggira di quadro in quadro, esaminandone le scene – sono andato ad un museo a Napoli e mi sono trovato questo bellissimo San Sebastiano legato alla colonna. Non c’erano ancora le frecce, era lì lì per. Non hai idea delle cosacce che ci ho fatto, Fe’. Me lo sono sbattuto undici volte, a pecora, un weekend intero con questo che belava”.
“Gerla’, per favore”.
“Che per favore e per favore, ti sto solo ricordando le potenzialità di questo regalo che sto per farti. Appena trovi un quadro che ti piace me lo dici, ok?”
“Ok”, rispondo senza nessuna convinzione.
“È che ‘sta scema di Immacolata fa quasi tutto astratto, brontola lui. – Per me il figurativo, ci vuole. Le modelle con le bocce di fuori”.
“Gerla’, anche tu. Non sono giocattoli”.
“Sono immagini di un quadro, Fe’. Non hanno anima. O coscienza. O che so io. Una cosa fanno: la loro scena. E basta. Una volta che li dipingi fanno quello per sempre”.
“Da fuori. Ma quando poi ci hai a che fare sono carne viva, respirano, gli batte il cuore. Tu li tratti come fossero bambole gonfiabili”.
“Ah no. Una bambola gonfiabile non si lubrifica da so-tombola”.
Si ferma davanti a una Decapitazione di Oloferne. Vai tu a sapere che la biscugina Imma tornava ogni tanto al quadro sacro. Ci sta una Giuditta niente male, giovane giovane; una serva sui cinquanta, un po’ rugosa; e un Oloferne gigantesco e muscoloso che pare Jason Momoa, però con la testa staccata quasi del tutto. C’è pure il fiotto di sangue.
“Questa è mia, proclama Gerlando. – Fe’, vieni anche tu?”
Esito.
“Fe’?”
“Onestamente, non …”
Qualcuno apre la porta della sala. Gerlando si prende paura:
“Cazzo, sono loro. Presto Fe’, dentro!”
Schiocca le dita e veniamo avvolti da un fiotto di luce assieme ai due quadri che ci stanno davanti. Lui finisce dentro il suo, io dentro a quello accanto, che manco avevo avuto il tempo di vedere. E mo’?
Passato l’abbaglio della luce, mi ritrovo – come tutte le altre volte che Gerlando mi ha fatto entrare in un quadro – davanti ad una parete liquida e trasparente, di là dalla quale si vede il resto della sala. Io posso vedere dall’altra parte, ma dalla sala loro non vedono me, il che è comodo se qualcuno ti sta cercando. Mi volto, e il mondo è cambiato completamente.
Ora sono all’interno della scena dipinta nel quadro: un bosco, fitto fitto e pieno di ombre. Dalla poca luce che passa attraverso le chiome degli alberi mi pare che sia mattino presto. I raggi solari toccano una radura a pochi metri da me, dove – appena mi ci cadono gli occhi – mi accorgo finalmente del vero soggetto del quadro.
C’è un cigno accasciato sull’erba, un po’ più grosso di un cigno normale, la testa a terra e il collo ripiegato all’indietro, trafitto da due frecce. Addosso al cigno si è accasciata a sua volta nu cazz e femmenona gnuda, nera di capelli, pure lei trafitta da due frecce, una per fianco ma all’altezza dei polmoni. I due respirano male, paiono in agonia; lei ha gli occhi chiusi, cinge il cigno con le braccia e ha la testa appoggiata al suo dorso. Potrebbe essere una scena famosa – onestamente non ne ho idea. E comunque il punto della situa è lo stesso. Questi sono qui che agonizzano e temo agonizzeranno per sempre, né morti né vivi. Di comunicare, non credo se ne parli. Cosa io debba fare di tutto questo mi sfugge.
Provo a buttare un occhio alla sala, di là dalla parete liquida. C’è qualcuno che parla nella penombra, ma non capisco quello che dice. Nel quadro accanto al mio – mi sporgo per vedere – Gerlando ha tirato su le gonne alla guagliona, lì, Giuditta, l’ha appoggiata sul corpaccione di Oloferne e la sta prendendo a pecora. Mi copro gli occhi costernato e torno dalla femminona e dal cigno. A parte il loro respiro malcerto e rugoso, sento solo i rumori del bosco e il vento tra le fronde. Qui sarà mattino presto per sempre. Metto una mano sulla chiappa della femminona, che essendo comatosa non se ne dà pensiero. L’accarezzo. Uh com’è liscia. E subito il fravaglio mi suggerisce cose. Scendo con la mano sulla coscia, poi la tiro via. Federico, insomma, va bene le urgenze, ma ti pare che chiavi un cadavere. Va bene, morta non è, ma tutto sembra tranne che ricettiva, ecco.
Risalgo con la mano più o meno sul fianco, istintivamente attratto dalla tetta destra, grossa come un uovo di struzzo e compressa sulle piume del cigno. Ed ecco che quando arrivo accanto alla ferita sento un gemito. La femminona contrae il viso, apre gli occhi per un attimo, li richiude – il dolore attraversa la sua faccia come una lumaca sulla pietra, lentamente, e lasciando una scia che prende molto tempo prima di scomparire. Ma povera crista. Chi l’avrà conciata così? Guardo le frecce, una sul fianco e una su quello opposto. Sono penetrate in profondità, non vedo tracce della punta. Mentre provo a cambiare posizione mi accorgo che in tasca ho ancora il flacone di amuchina mezzo pieno, ormai col Covid andiamo tutti in giro con il cloro in borsa, ed è allora che mi viene in mente un’idea del tutto idiota, non a caso sono un pluri-ripetente.
Mi inginocchio accanto alla femminona, spargo amuchina sulle sue ferite – dopodiché procedo a fare quello che facevamo da bambini al paese quando ci ficcavamo nella pancia le forchette della mensa; cioè, mi cimento nell’estrazione della freccia. Non è una cosa semplice né pulita, mi tocca allargare la ferita un’anticchia – ho il coltellino svizzero nell’altra tasca – e provare delicatamente ad estrarre il fusto senza lasciar dentro la punta. La femminona, com’è prevedibile, geme, ma non urla – forse è davvero tanto comatosa che il dolore lo sente così così? Dopo non so quanto tempo, la freccia viene via. La getto lontano. Mi alzo, sudato e schizzato di sangue, e mi riavvicino alla parete liquida per vedere che fa Gerlando. Nella sala è notte. Lui, nel quadro, ha costretto la vecchia servente di Giuditta a tenergli in mano il fravaglio e dirigerlo verso la bocca aperta di Oloferne, presumo perché non si sentano troppo i denti. Gli vedo le chiappe andare avanti e indietro come uno stantuffo. Sospiro e penso che siamo pure parenti, maronn.
Meglio concentrarsi sulla femminona, che qui non ho mica finito. Replico il trucco con la seconda freccia, stavolta ci metto più tempo perché s’è incastrata sotto la scapola e la poverina ulula forte. E io giù con l’amuchina, non sia mai si prendesse un infezione. Fermo il sangue strappandomi pezzi di maglietta e provando malamente a premerli sulla ferita disinfettata. Poi quando mi pare che stiamo un po’ meglio e la femminona ha smesso di ululare, dolcemente la prendo tra le braccia, la separo dal cigno e la depongo sul prato, contemplando la visione del suo davanti che è bello come il dietro, e se possibile più bianco ancora. Lei ora dorme, ha le lacrime agli occhi dal gran dolore, e le gambe leggermente aperte. Io provo a spiegare al fravaglio che non è il caso. Il fravaglio obietta che questa non è una persona, è come dire una bambola gonfiabile (aridaje), posso fare il comodo mio e andarmene. Io ricordo al fravaglio che questo è l’argomento del cugino Gerlando. Il fravaglio realizza a che livello è sceso, si vergogna e tace.
Mi volto. Oh, se non posso chiavare la femminona, magari il cigno…? Ngul a sort, mi risponde il fravaglio, t vatt, sa. Mi scuso, cerco una sigaretta nel taschino della giacca ma no, non ci sta né quella né un accendino, niente, tenevo solo il cloro e il coltellino svizzero, il Rambo del Matese. Waanm. E io mi ero fatto il viaggione che la femminona si svegliava, mi chiedeva chi l’aveva salvata, mi facevo avanti con virile ritegno, questa mi si spiaccicava addosso, io già che c’ero salvavo pure il cigno, poi costruivamo casa nostra nel bosco, il cigno praticamente era il nostro cane e dormiva sulla coperta del letto e ci teneva caldi quando nevicava, oltre naturalmente al nostro amore, ché io la femminona già l’amavo, poi ovviamente le fiabe non sono più quelle di una volta quindi io facevo tutti i lavori domestici e la femminona si pigliava una laurea e andava a fare la scienziata a Roma o al Gran Sasso, ma la sera tornava sempre da quel cuopp a less che sono io che una cosa sapevo fare, cioè amarla e farle trovare la pasta patate e provola e il bagno caldo con la schiuma quando tornava stanca dal lavoro.
È tutto bellissimo.
Poi ad un certo punto mi rendo conto che sono ancora più cretino di quello che pensavo. Guardo la femminona che dorme il sonno del giusto, il suo dolore alleviato, e penso che tanto io a ‘na certa uscirò dal quadro, perché non è che puoi vivere in un quadro tutta la vita, persino Gerlando quando si stanca di chiavare esce e torna a spacciare droga; e quando, uscito fuori, mi volterò a rivederlo, la scena sarà la stessa di quando sono entrato: la femminona e il cigno trafitti e la loro silenziosa agonia nella foresta. Ho tolto alla femminona una frazione infinitesimale di dolore alla pena infinita che l’aspetta. Forse ho pure fatto peggio, ché si piange più forte in mezzo alle miserie se si conosce il bene. I quadri mica cambiano, restano quelli che sono finché…
Ah, bè. Forse così cretino non sono.
Inspiro, prendo la rincorsa, mi fiondo contro la parete liquida, atterro sul pavimento della sala polivalente, proprio davanti al quadro. Mentre ne uscivo ho potuto dare un’ultima occhiata al cugino Gerlando che stava sodomizzando la vecchia servente di Giuditta mentre l’altra disgraziata veniva costretta a praticargli del fisting. Non mangerò per i prossimi tre giorni. Con un colpo secco stacco il quadro con la femminona e il cigno e procedo fino alla sagrestia della parrocchia, dove don Sabino tiene le sigarette e – in un cassetto – la scatolina dei fiammiferi. Non c’è allarme, siamo gente di montagna, chi vuoi che venga a rubare? E io per inciso non sto rubando: sto vandalizzando, che è un’altra cosa. Esco dalla porta principale della sala spingendo il maniglione antipanico, e svicolo col quadro sottobraccio sul fianco della montagna sotto la chiesa, cosparsa di castagni. C’è luna calante, ma tanto conosco queste foreste come casa mia. Arrivato ad una pozzanghera, ché ha piovuto da poco, mi siedo sul prato col quadro in grembo; e a forza di accendere fiammiferi sulla cornice, gli do fuoco. Lo tengo alto sulla pozzanghera finché la fiamma non l’ha mangiato; poi ce lo butto dentro, ridotto a un troncone di legno annerito. Mi dispiace per Immacolata, immagino che al quadro ci tenesse; ma secondo me s’incazzerà molto di più quando saprà cosa ha fatto Gerlando a quei poveracci della Decapitazione di Oloferne.
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