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"Cos'hai nel sangue": intervista a Gaia Giovagnoli

Pietro Emiliani intervista la scrittrice Gaia Giovagnoli, autrice di poesia (Teratophobia, ’Round Midnight ed., 2018) e di "Cos'hai nel sangue" (Nottetempo, 2022), suo romanzo d'esordio.



"Ho il respiro sospeso, la bocca aperta. Deglutisco e, mentre lo faccio, mi brucia il fondo della gola. Cerco di non respirare - e la saliva si fa strada ai lati delle labbra, seccandole. Le parole che ho appena ascoltato, qualsiasi cosa vogliano dire, mi rimbombano dentro. Ogni parte di me si chiede cosa stia davvero raccontando, quella donna piena di ombre e di spigoli, cosa stia cercando di dire a quell'uomo - o a me - quella donna che ha il cervello che scalcia dentro l'assurdo. Sa che sono dietro la porta?" da "Cos'hai nel sangue" pg. 23






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1. Prima di questo esordio in narrativa, hai pubblicato una raccolta di poesie, "Teratophobia" (Round Midnight, 2018). Si nota la forte influenza in "Cos'hai nel sangue". In che modo ti ha aiutato il linguaggio poetico nella narrativa?


Il linguaggio della poesia e quello della prosa, in me, sono molto diversi – e per questo mi sorprende sempre un po’ quando qualcuno nota risonanze forti dell’uno nell’altro. Per me resta molto diverso il modo di gestire la pagina e lo spazio bianco, così come il ritmo.

Il terreno comune che vedi probabilmente si rifà da un lato al lavoro di cesello e dall’altro alle immagini, che provengono dallo stesso immaginario: mi piacciono le parole scelte bene (come a tutti quelli che scrivono cose, credo) e le scene suggestive (e anche qui non credo di essere un’eccezione).

La poesia sicuramente allena alla sinestesia: abitua a provare a dire qualcosa in modi trasversali, usando vie meno battute (forse).

Poi, anche se faccio tanti intellettualismi, alla fine chi parte dalla poesia probabilmente ormai ce l’ha sottopelle. Si fa molta fatica a liberarsene.


2. Quali differenze e quali somiglianze riscontri tra la poesia e la narrativa? Sono dimensioni che possono collaborare o si ostacolano nella scrittura?


A me non piace molto la prosa estremamente poetica, perché nella narrativa cerco spesso la storia, la trama. Anche le “sbavature” stilistiche, in narrativa, alla lunga mi annoiano: quella che può essere una bella sorpresa una volta, se trovata in una pagina (lo slancio di un’immagine, un giro di frase molto limato), alla lunga, se riproposto a ogni periodo, annoia. L’effetto per l’effetto mi appesantisce come lettrice. Cerco quindi di evitarlo quando scrivo – e purtroppo non sempre mi riesce.

La poesia e la prosa si toccano sicuramente in chi scrive, ma quanto si sovrappongono dipende dal gusto di ognuno. Personalmente provo a calibrare bene l’una forma nell’altra, per onorarle entrambe. Hanno punti di forza importanti, che mi piace provare a sfruttare senza invadere troppo il campo.


3. Parli molto attraverso le sensazioni e le immagini, il corpo di Caterina (la protagonista). Cosa rappresenta quel sentire? E il corpo? Che ruolo hanno nel romanzo?


Il corpo è un bel casino. È oggetto di storie individuali e collettive, porta in sé concetti personali e politici, implicazioni. Quando si muove, parla, sente, è come se andasse a scontrarsi con tutti questi piani – che sono nei casi migliori in una sintesi dinamica, nei peggiori in contraddizione tra loro.

Caterina è come tutti: prova a capire cosa sta esperendo, cercando anche di capire il suo corpo. A volte lo combatte. Lo monitora, lo schiaccia, lo irregimenta. È una specie di animale in gabbia nella prima parte del libro, e ha l’attenzione completamente su sé stessa. Poi anche il suo corpo si trasforma, come si trasforma la sua esperienza. Mano a mano che scopre Coragrotta. Il suo corpo sarà anche altro: aggrappandosi alle sensazioni vive sogni, visioni. Diventa uno strumento conoscitivo. Mistico.



4. Durante la lettura, mi tornava in mente la parola "sospensione". Quando Caterina "sente" la realtà, sembra distaccarsi e costruirsi un suo immaginario, spesso onirico e allucinato... Cosa nasconde la realtà e dove porta l'allucinazione? È davvero tutto sospeso?


Non credo che tutto sia sospeso, o meglio: abbiamo delle strutture, con cui leggere la realtà, e le condividiamo. Dei valori che ci fanno da perno. Degli schemi narrativi, simbolici. Li teniamo ben stretti. Se non ci fossero si rischierebbe il relativismo assoluto, e il caos non è una prospettiva auspicabile. In questo senso, la realtà ha dei punti fermi – che non siano assoluti ma relativi non importa, sono gli unici che possiamo esperire davvero. Il caos dobbiamo dimenticarcelo, per vivere, per funzionare – individualmente, collettivamente.

Caterina ogni tanto prova un approccio diverso. Scivola nella visione e, così, fa saltare una parte di quegli schemi condivisi: mischia passato, presente e futuro; vede qualcuno che non c’è o nella forma in cui non è più; sta in luoghi che ancora non ha visitato.

La visione è perturbante proprio per questo: c’è qualcos’altro che parla. Ci si chiede se non parli sempre.



5. Ogni personaggio possiede il suo doppio e i suoi conflitti: Caterina con la madre, la madre con il suo passato, l'antropologo Spina con i misteri di Coragrotta ecc. Cosa li lega? E cosa rappresentano?


Ogni personaggio prova a procedere contro qualcosa, come capita nella vita. Fuori di metafora, davvero. Rappresentano sé stessi. Forse non tutti, fuori dai libri, hanno un “avversario” così tanto definito (o magari ne hanno infiniti, frammentati), ma ognuno ha dei fantasmi che lo perseguitano e che, finché non li nomina o li avvicina, finché non chiede loro cosa vogliono, continuano a fissarlo e a sfinirlo.



6. Il romanzo è fortemente introspettivo e attento alla psicologia dei personaggi. Parli anche di disturbi psichiatrici. Quali in particolare? A cosa ti sei riferita per descriverne le caratteristiche?


Parlo soprattutto di quella che sembra una demenza senile della signora Gaggi e di disturbi del comportamento alimentare (DCA), legati a Caterina.

Il discorso sulla malattia è qualcosa che mi interessa molto: come definiamo certi disturbi, come ne parliamo, quali sono le cose “anormali” e quelle accettabili, indica tanto della nostra cultura e dei concetti sui quali si fonda. Nella malattia si vede agire un soggetto, che incarna anche altro, che può voler combattere altro, riscriverlo, anche in maniera non pacifica. Jodorowsky dice che “alla radice di ogni malattia c’è il divieto di fare qualcosa che vorremmo fare o l’ordine di fare qualcosa che non vorremmo. Qualsiasi guarigione richiede la disobbedienza a tale divieto o a tale ordine”.

I DCA di solito vengono narrati come esigenza estetica dell’individuo: come se si rifacessero solo a un concetto di bellezza. Sottinteso: chi si affama lo fa per vanità. Ma non è questo.

Il fondale, la radice, è lo squilibrio di potere. Quell’ossessione è un tentativo di ripresa di controllo, in persone che anche senza rendersi conto sono oppresse da una narrazione che ne annulla l’agency, la possibilità di azione. E come avviene per alcune malattie che parlano attraverso elementi culturali, i malati di DCA usano i principi più noti, più trasversali, più evidenti, per portare avanti un'altra narrazione, che a parole non riescono o possono fare.

Il cibo è luogo denso di significato, e viene usato come strumento nel discorso. La bellezza, l'immagine, la fisicità, sono elementi ossessivi della nostra cultura, e vengono così inclusi nel disegno. Ma le DCA non hanno a che fare solo con il cibo o con la bellezza. Quello è il lessico. Sono una malattia che manifesta il disagio culturale e famigliare, usando elementi cardine della società di appartenenza. Sono malattie complesse. Spesso succede che il racconto della malattia – fatto dagli stessi malati – si fermi solo a quell'aspetto superficiale (Caterina stessa prova a rendersi affascinante, si associa alle sante e alle streghe per nobilitarsi): ma sotto c'è un discorso di frustrazione e di impotenza. Come per le isteriche o le tarantate, io credo che ci sia una forte componente legata alla crisi di presenza nella Storia, del soggetto nel mondo (alla De Martino), e che arrivare al limite fisico sia uno dei modi più funzionali per dire: ci sono, ho bisogno che altri mi vedano, che mi dicano che esisto, che mi aiutino. Oggi sono malattie sulle quali intervenire con la medicina – altro pilastro della nostra cultura, che grazie al suo sguardo rende le cose più “urgenti”, più “vere”.

Le sante “anoressiche” (credo sia improprio parlare di anoressia per come la pensiamo oggi) usavano un altro linguaggio, che era quello della religione: in un mondo dominato dal maschio potevano dimostrare di avere una forma di potere, di non essere donne come tutte, usando il corpo come luogo di un discorso. Nella privazione dicevano: siamo donne speciali; ascoltateci. Santa Caterina fu seguita solo perché mistica, perché nel corpo portava i segni della sua fede. Si privava del cibo, non dormiva, aveva le visioni. Parlò con il papa. Fu una donna con un’autorità, e venne ascoltata. Di quella disperazione di poter essere accolta nel discorso, però, ci morì.



7. Oltre all'introspezione, c'è una forte propensione alla dimensione femminile. Le protagoniste sono tutte donne. Donne arrabbiate e sofferenti che governano l'uomo. Cosa volevi portare al lettore? Si può parlare di femminismo?


Uno dei miei personaggi preferiti è un uomo: Giangi. Mi fa un sacco tenerezza. Poi c’è Tiberio, anche, e l’antropologo Alessandro Spina è un pilastro delle scoperte di Caterina. Senza di lui, la sua ricerca rimarrebbe ferma. Senza Spina, la storia non avrebbe nemmeno un avvio. Questo per dire che è vero: a Coragrotta ci sono tante donne, ma non solo le uniche protagoniste. Anzi. Ed è interessante che, nelle varie presentazioni fatte, quasi nessuno abbia chiesto degli uomini del libro. Addirittura c’è stato chi mi ha detto che non si è identificato con nessuno, proprio perché è un libro di sole donne (e qua ci sarebbe una tangente da fare, su noi che siamo cresciute a pane e uomini protagonisti, ed eppure qualcosa, dai libri, lo abbiamo introiettato lo stesso) o si è piccato perché il maschio qua non fa una bella figura, e ci ha visto un attacco.

Le donne di Coragrotta sono donne violente, e soffrono comunque delle imposizioni sociali. Non vivono in un sistema davvero isolato dal mondo, nonostante stiano disperse tra i monti: il modello esterno è entrato, ha detto loro che devono fare figli, che sono niente se non li hanno. Ha attribuito loro i super magici poteri del femmineo e le ha messe a capo di un sistema esplicitamente matriarcale, è vero, ma tutto fuorché idilliaco (il contrario di Bachofen, che ipotizzava la possibilità storica di un matriarcato pacifico). Parallelamente, il sistema esterno ha detto all’uomo che deve provvedere alla famiglia e alla donna, senza mettere in mezzo i propri sentimenti, anche accettando forme di violenza più o meno estreme. Alla fine della fiera, a ben guardare, a Coragrotta tutti soffrono. Non c’è un ribaltamento della nostra società, ma una forma portata allo stremo. I coragrottesi hanno solo imparato a trattare il dramma sociale e personale in modo ritualizzato.

Non mi sono sinceramente posta la questione sul femminismo, scrivendo il libro, e non volevo dare soluzioni. Vorrei che chi leggesse restasse con delle domande.


8. La descrizione della donna assomiglia molto a quella della strega, e si intuiscono elementi appartenenti all'esoterismo e alla magia. Quali sono e da dove provengono?


Io faccio i tarocchi. E mi piacciono molto il folklore e la magia popolare.

Trovo i riti popolari uno strumento affascinante, anche se spesso vengono tacciati solo di ingenuità e ignoranza (senza premurarsi manco di nascondere quel velo di classismo, che male non fa). Cercare di capire cosa succede, quando si operano approcci di questo tipo, è invece interessantissimo. Parteciparne. Ed è anche interessante provare a fare ipotesi sul perché siano rinate certe forme di spiritualità, o si sentano necessarie dentro di sé. È un fenomeno globale.

Secondo me la magia può essere vista come uno spazio di azione, anche qua, di ripresa di potere. Se più persone – generazioni? – si sentono escluse o non rappresentate a livello politico, cercheranno un modo per re-immettersi nel discorso, per farlo proprio, spesso ricorrendo anche a soluzioni individuali. Maneggio strumenti, erbe, gesti, e nel farlo non solo mi allaccio ad altre centinaia di persone (la collettività è sempre bella da vedere all’opera) ma sto pure intervenendo come posso nella mia realtà – che è una sezione della realtà più ampia.

La magia può pure essere un'opportunità per ragionare sulle cose irriducibili dell'uomo, è un modo per accettare la propria impossibilità di azione, ciò che ci è impedito di fare – non solo per classe o disparità strutturale, in questo caso, ma perché l’essere umano è limitato. Abbiamo schemi di pensiero, bias. È riconoscere dove c'è qualcosa di sacro che non può essere compreso davvero, o maneggiato. Il sistema esplicativo del razionalismo, ha come sottoprodotto la disgregazione della meraviglia, del dubbio, del caos. Ma il mondo è fatto di confini e di zone impenetrabili. Non esiste un sistema esplicativo che esaurisca davvero il mistero, non in modo soddisfacente.


9. Quale è stato il percorso umano e letterario che ti ha portato a "Cos'hai nel sangue?" Personalmente, ho visto molto Shirley Jackson...


King dice in “On writing” che non può davvero mai dire cosa lo abbia ispirato nella scrittura di un libro, ma può dire che cosa abbia letto mentre lo scriveva. Io aggiungo pure: e cosa ho guardato: film come Hereditary, The Witch, Babadook, Midsommar, Relic, Suspiria sicuramente mi hanno suggerito le atmosfere.

Ho letto, poi, "Streghe di Romagna" di Giuliana Zanelli, per la parte folklorica, e anche "I giorni del sacro e del magico" di Eraldo Baldini. O’Connor, Han Kang, Louise Glück, Pascoli. Olga Tokarczuk. Jackson, assolutamente. Per certe suggestioni – piante, terra – sicuramente, a posteriori, ho pensato potesse c’entrare anche Boccaccio, con la novella di Lisabetta da Messina, così come “il fiore che è come una belva” ne I Dialoghi con Leucò di Pavese (è il dialogo tra Endimione e lo straniero). La strega di Anne Sexton, della sua poesia “Her kind”, nella casetta piena di pentole e mangiatrice di uomini, che non ha paura di morire. Le streghe senza capelli di Rohal Dahl.


10. Stai lavorando a nuovi progetti dopo "Cos'hai nel sangue"?


Ho un libro di poesie in fermo da un sacco di anni. Parla – strano! – di una strega.

E sto scrivendo un secondo libro di narrativa, sempre per Nottetempo. Ancora non faccio spoiler sul titolo e sul resto, ma c’entrano i tarocchi.






 

Nota Biografica

Gaia Giovagnoli (Rimini, 1992) è scrittrice e cartomante. Ha pubblicato il romanzo "Cos'hai nel sangue" (Nottetempo, 2022 – vincitore del Premio Dante Arfelli; finalista al Premio Fahrenheit Radio3, al Premio Berto, al Premio POP) e la raccolta poetica "Teratophobia" ('round midnight, 2018). Il suo secondo romanzo è in via di pubblicazione, sempre per l'editore Nottetempo.

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