Intervista Michele Smargiassi, giornalista di La Repubblica e redattore del blog Fotocrazia
1) Viviamo in un mondo inflazionato di immagini, tuttavia la letteratura fotografica rimane sconosciuta per la maggioranza. Perché esiste una non-cultura fotografica? Detto altrimenti, perché non si conosce la letteratura fotografica e le immagini si vedono, ma non si pensano?
Esiste una letteratura critica e analitica sulla fotografia, ma è spesso confinata ad ambienti accademici o esoterici, non c’è un discorso sulla fotografia che abbia la stessa popolarità del discorso sul cinema, sulla musica, non c’è una condivisione di ragione e passione sul medium, oltre che sui contenuti.
Si parla solo di cosa si vede dentro la fotografia, interpretata come un medium trasparente, una finestra aperta sul mondo che qualcuno ci spalanca davanti e il ruolo del fotografo è aprire questa soglia spazio-temporale e dopo affacciarsi: vediamo attraverso la fotografia, difficilmente vediamo la fotografia, per questo non sentiamo il bisogno di parlarne, di spiegare e spiegarsi il linguaggio, un linguaggio che non viene visto.
Siamo in una società per cui le immagini non hanno dignità di linguaggio, perché il linguaggio scritto ha una maggiore preponderanza nella nostra cultura. Esistono culture più o meno meno centrate sul logos, più abituate a leggere le immagini o meno. La cultura francese vive un grande e storico sospetto per le immagini, una paura che le immagini tradiscano, che non dicano tutto. Se ci pensiamo bene, la fotografia è entrata nel discorso critico, è stata considerata come oggetto culturale negli anni 80, dopo essere stata un giocattolo, quando alcuni filosofi, pensatori e semiologici americani e francesi se ne sono occupati, facendolo all’insegna del sospetto, pensando alla fotografia come un’immagine che tradisce. Il bacio di Giuda di Joan Fontcuberta ci parla di questo. Tutti gli intellettuali che scrivono di cinema o musica amano il cinema o la musica, gli intellettuali amanti della fotografia, sospettano della fotografia. Una messa in guardia dalla fotografia. Il motivo è che a lungo, per un secolo e mezzo, la fotografia ha esercitato il suo potere sulla convinzione incontrastata di verità, sfruttando la sua fama di verosimiglianza abusiva e incontestata, questo ha generato una necessità di decostruire la presunzione di verosimiglianza e l’idea che la fotografia non ha bisogno di spiegazioni o interpretazioni. Benvenuta la messa in discussione negli anni passati, ma poi è mancata una ricostruzione in termini di linguaggio utile. Si è verificato un recupero popolare, la gente ha cominciato ad usare questo linguaggio quando ha potuto farlo, in maniera economica, diffusa, quotidiana, gestuale. Poi, sarebbe responsabilità degli intellettuali lavorare su questo uso spontaneo, a volte irriflessivo. Se si parla solo di panico intellettuale, di peste visuale, di immagini senza cervello e di mostrificazione del medium si otterrà una divisione classista tra intellettuali che storcono il naso e gente che usa la fotografia.
La fotografia tascabile è diversa dalla fotografia d’autore, è uno strumento prossemico, di comunicazione non verbale, aggiunto a tutti gli altri, come i vestiti, i gesti, il movimento, i modi in cui comunichiamo con elementi che non sono le parole.
Adesso la fotografia consente di tenere relazioni a distanza. La fotografia ha consentito un ampliamento delle relazioni con gli altri. Come tutti i linguaggi può essere usato bene o male, può essere usato per fare male, per fare bene, come arma, per aggredire. In quanto linguaggio va usato con un minimo di consapevolezza relativamente al fatto che si sta usando.
2) Cosa intendi per fotografia consapevole? E cosa per fotografia inconsapevole?
Si pensa sempre quando si scatta, anche quando si fa un selfie si ha un motivo per farlo. Devono essere tutti motivi importanti? Possono essere anche motivi spensierati e futili. Siamo sempre consapevoli, ma consapevoli di cosa?
La consapevolezza dovrebbe essere semplicemente la capacità di capire che non stiamo comunicando attraverso l’immagine che mandiamo, ma anche attraverso il modo in cui l’abbiamo fatto, il modo in cui viene realizzata l’immagine grazie allo strumento che utilizziamo inserisce altri significati che magari a priori non abbiamo voluto, scattiamo al momento in cui la mettiamo in circolazione, lo sfondo di cui noi non ci occupiamo inserisce significati, così come i filtri sono connotativi e aggiungono.
Una cosa che noi non abbiamo capito, parafrasando Fontcuberta nel Il bacio di Giuda, la fotografia ha una lunga durata, istantanea solo nel momento primario. I significati che si inseriscono a nostra insaputa dovremmo essere capaci di governarli per quanto possiamo o per lo meno metterli in conto. La possibilità di equivoco è enorme.
A proposito di significati pericolosi, è stato fatto un esperimento relativamente ai rischi associati alla diffusione delle immagini online e sull’uso consapevole dei social network: si raccoglievano gli account degli studenti, analizzando i loro album fotografici, si stampavano successivamente alcune delle foto trovate sui social e si affiggevano in formato A3 sulle pareti della scuola. I ragazzi hanno chiesto spiegazioni e l’autore dell’esperimento rispondeva che era tutto ciò che loro stessi diffondevano. Non è soltanto quello che c’è dentro la fotografia ma anche il mezzo di diffusione che si sceglie e che espone in modo differente, per cui l’immagine non è più tua, può sfuggire di mano una volta donata al social. Ci sono dei pericoli effettivi relativamente alla diffusione delle immagini sui social network. Ci sono pericoli, nonostante sia una bella potenzialità di linguaggio e comunicazione con gli altri, reca con sé dei rischi della comunicazione da considerare e le potenzialità in termini sia positivi che negativi del linguaggio.
3) Partendo dalla tua esperienza, cosa ti ha spinto ad interessartene? E parallelamente alla tua esperienza che pensiero hai sviluppato riguardo alla fotografia da un punto di vista sia intimo che sociale?
“Sono stato un giornalista per tutta la vita e parallelamente studiavo questo linguaggio, facendone una ragione di vita, di impegno, di scrittura”.
Ho studiato Storia all’università, storia dell’urbanistica, per una serie di casi complicati
ho lavorato su un fondo gigantesco di cartoline illustrate dei primi del 900, le ha sfruttate per la tesi di laurea sul tema delle trasformazioni urbane. Per questo, è servito studiare la fotografia, la teoria del fotografico. Dopo qualche anno dalla laurea, ho messo da parte la storia urbana occupandosi di fotografia, come passione personale.
“Non sono un fotografo, lo dicono tutti quelli che fotografano ma hanno paura di essere giudicati, mi diverto con la fotografia in maniera ironica, affidandogli una funzione di ricordo e in questo la fotografia mi accompagna”.
Ho scritto per molti fotografi testi e prefazioni per le loro fotografie, cercando di non fare invasione di campo. L’editore spesso richiede un testo e allora si richiede a chi si occupa di scrittura.
“Non esistono fotografie mute che ci possano arrivare galleggiando nell’aria senza nessun contesto verbale, e anche se arrivassero immediatamente le assoceremmo a noi stessi”.
4) Sei affezionato a qualche fotografo o a qualche storia fotografica in particolare di cui scrivi o hai scritto? Vuoi
citare qualcuno e spiegare i motivi di questo affetto?
In generale mi piace molto la fotografia narrativa, mi piace l’immersione totale in una realtà , il tentativo di esaurire con delle fotografia la visione di un luogo e di una situazione, mi piace molto Eugene Smith, in particolare Pittsburgh. Ritratto di una città industriale, un racconto a lungo termine. Il tentativo di esaurire con le fotografie una visione di un luogo o di una visione senza mai arrivare ad una sintesi.
Sono affezionato a molti fotografi: qualcuno mai conosciuto, qualcuno conosciuto da intervistatore.
Alcuni miti, se dovessi citarne un paio: Walker Evans e Josef Koudelka. Tra gli amici fotografi: Ferdinando Scianna, Gianni Berengo Gardin.
Un affetto speciale per Nino Migliori [1], grande fotografo e artista.
4) A proposito delle storie fotografiche rispetto alla cronaca vuoi dire qualche parola in più su questo aspetto? Differenza tra storia fotografica e cronaca
Con tutto il rispetto e gratitudine per i fotografi di cronaca che fanno un lavoro rischioso che richiede diverse qualità (umane e anche “atletiche”), io preferisco il lavoro a lungo termine, nonostante su questo tipo di lavoro ci sia molta mitologia. Quasi tutti i fotografi parlano di “immersione totale” all’interno della storia raccontata, si sentono spesso frasi del tipo “ho vissuto i miei soggetti”, “ho rispettato la dignità”... ma queste sono cose che a volte i fotografi si raccontano per giustificare quel senso di colpa, quella specie di voyeurismo intrinseco alla fotografia.
Rarissimi sono i casi in cui il fotografo era realmente dentro la storia raccontata (come ad esempio Nan Goldin).
Ma una volta consapevoli di questo, di essere solo degli osservatori esterni, i fotografi lo accettano e si pongono in una condizione di patto. C’è una studiosa bravissima, che si chiama Ariella Azoulay, che sta cercando di riconsiderare alcuni capisaldi della teoria fotografica fissati dai grandi pensatori nel secolo scorso. Susan Sontag, ad esempio, ha condizionato notevolmente la visione della fotografia introducendo il concetto di fotografia come “predazione”, fotografia come metodo di sfruttamento. Ma può esistere un altro modo di fare fotografia, inteso come scambio e non predazione, e la Azoulay sta lavorando su questo concetto che lei definisce “il contratto civile della fotografia”.
Da quando la fotografia è così diffusa (chiunque sa cosa sia una fotografia), è diventata una piattaforma di scambio che può anche essere la base di un contratto politico tra fotografo e soggetto, di cui il terzo attore è uno spettatore. All’interno di questo contratto tutti quanti hanno uno scopo, la vittima vuole denunciare la sua condizione e lo spettatore ha necessità di informarsi. Questo lavoro è affidato al fotografo.
Oggi che la fotografia è alla portata di tutti è però cambiato il mestiere del fotografo: il suo obiettivo non è più lo scoop fotografico, ma dobbiamo pensare alla fotografia come una relazione umana che può produrre dei racconti efficaci.
5) Oggi chi parla di fotografia? Perché lo fa? Come lo fa?
Tutti parlano e scrivono di fotografia, perché non essendo un campo specialistico tutti quanti ci possono ragionare sopra. Ma una cosa è la disponibilità a ragionare, altro è pensare di sapere tutto quello che serve per poterne parlare. La maggior parte degli scrittori scrivono di fotografia come se fosse un medium trasparente, specialmente gli storici (cosa che non fanno di fronte a dei documenti). La fotografia è diventata per molti intellettuali un “campo di turismo intellettuale”, c’è insomma molto parlare della fotografia sui media da parte di persone che non ne conoscono la complessità, mentre chi ne conosce la complessità ne parla in cerchie ristrette. La fotografia non è un linguaggio universale, non è vero che la fotografia di un giapponese parla ad un italiano, per comprendere la sua fotografia bisogna entrare nella mentalità del fotografo giapponese, nella sua cultura e conoscere l’influenza che ha subito. Come nel linguaggio scritto e parlato, anche in fotografia esistono più lingue.
Sono più le culture fotografiche popolari che hanno un proprio idioma. Ad esempio in India hanno un modo particolare di interpretare la fotografia di ritratto: i ritratti indiani sono foto piene di fotomontaggi e sfondi artificiali. Per noi la fotografia è la realtà, per gli indiani invece il ritratto non deve rappresentare ciò che si è ma ciò che si sogna di essere, si potrebbe definire una fotografia desiderante.
6) Secondo la tua opinione c'è una differenza tra fotografia d'autore e fotografia iconica? Perché una fotografia diventa iconica? Cosa può succedere se una fotografia diventa iconica?
Tanti grandi fotografi hanno finito per avere paura delle proprie fotografie diventate iconiche loro malgrado, perché un’icona diventa icona soltanto involontariamente. Quando il fotografo cerca di creare un’icona volontariamente, quasi sempre fallisce. Come diceva Barthes, quello che porta la fotografia a “bucare” non è mai qualcosa che ha messo il fotografo ma è dentro la sensibilità di chi guarda e della collettività. Mentre il punctum di Barthes colpisce l’individuo, si può definire l’icona come una specie di punctum sociale. La collettività scopre improvvisamente nella fotografia di un fotografo (che non ci aveva minimamente pensato) un simbolo che trascende il momento e la contingenza in cui la fotografia è stata scattata. La fotografia iconica si stacca dalla storia, abbandona tutte le contingenze che la legano al momento in cui è stata fatta. Il processo di iconizzazione della fotografia è la morte della fotografia come fotografia, esce dal campo della fotografia per diventare un simbolo, un monumento.
Bisogna però tenere presente che la fotografia mente sempre sul suo significato apparente, e quindi anche l’icona può mentire. Ad esempio la foto di Falcone e Borsellino rappresenta “la serenità del giusto”, a prescindere dalla contingenza particolare in cui la foto è stata scattata. Le icone sono sempre simboli di sentimenti universali positivi, gli americani chiamano “inspirational” questo tipo di fotografia che ti riempie di buone sensazioni.
Una delle ragioni per cui i fotografi hanno paure delle proprie icone è che diventano più famose di loro, le icone riescono a spodestare il fotografo stesso.
L’icona però a volte può essere ingrata nei confronti della realtà perché alcune fotografie diventate iconiche si sono ripulite dello “sporco” che portano con sé. Ne è un esempio la fotografia del rastrellamento del ghetto di Varsavia scattata nel ‘43 che rappresenta una vittima universale, una fotografia commovente, una fotografia che indigna. Questa fotografia, che ci è in qualche modo diventata cara, è stata però fatta scattare da un ufficiale tedesco con l’obiettivo di documentare la distruzione del ghetto, al fine di ottenere una promozione.
Questa fotografia è “sporca”, ha contribuito ad uccidere. Non va censurata, ma dobbiamo sapere che cos’è ed esserne consapevoli.
Ci sono strutture formali che favoriscono la promozione di un’icona, una certa semplificazione, una certa essenzialità dei tratti, una composizione studiata che favorisce la concentrazione dello sguardo di chi guarda verso dei tratti e gesti essenziali. C’è una sostanziale semplificazione dietro un’icona, bisogna “potare” tutti i possibili distrattori.
7) Inoltre, secondo te qual è il rapporto tra fotografia e verità?
Il concetto di verità in sé é molto problematico, parliamo piuttosto del rapporto della fotografia con il reale, col mondo fisico. La fotografia, come dice Joan Foncuberta, mente sempre e inevitabilmente, e il problema del fotografo diventa quindi quello di mentire bene la verità. Sapendo di avere in mano uno strumento che inganna, il fotografo deve cercare di usare in modo onesto la menzogna, la dissimulazione onesta. Io sono convinto che la verità delle fotografie risieda nelle sue bugie: una volta che abbiamo capito come la fotografia ci mente, la fotografia diventa indifesa. Se riusciamo a smascherare le bugie delle fotografie, avere coscienza che quella fotografia possa mentire, quello che ci rilascia la fotografia è la verità sulla sua menzogna. Prendiamo i casi più celebri della storia come le cancellazioni sovietiche dei personaggi scomodi al regime. Nel momento in cui sappiamo che quel personaggio è stato cancellato non abbiamo più un falso, ma abbiamo una fotografia che dice la verità sulla propria mistificazione. Dobbiamo porci la domanda: perché quel personaggio è stato cancellato dalla storia? Capire perché una fotografia voleva mentirci un processo di conoscenza della storia. Le fotografie che mentono sono testimoni della loro menzogna, se è stato necessario mentire c’era un motivo, e questo motivo a livello storico è molto importante, va cercato e va capito. Dobbiamo farci incuriosire da quello che la fotografia vorrebbe farci pensare, dobbiamo chiederci: “quale messaggio voleva farci passare il fotografo? cosa voleva farci vedere?” Suggerisco questo esercizio ai ragazzi: fatevi 3 selfie, uno per il fidanzato, uno per la mamma e uno per la professoressa di lettere. I tre selfie risulteranno diversissimi, perché cambia la relazione, cambia lo scopo. I ragazzi sono stati invogliati a pensare: perchè sto facendo questa foto? Cosa voglio mostrare e cosa voglio nascondere a chi vedrà questa foto?
8) Secondo te qual è il rapporto tra fotografia e memoria?
Il sinonimo di fotografare è “immortalare”: quando la fotografia era una risorsa scarsa, il suo scopo era un aiuto alla memoria, un aiuto alla memoria selettiva, solo i bei ricordi dovevano restare nella storia. Ormai con i cellulari si fanno fotografie in tutte le occasioni, e ritengo che questo sia un grande salto di qualità. La fotografia molto spesso viene utilizzata come linguaggio effimero, e solo una percentuale ridotta delle fotografie scattate viene utilizzata come deposito di memoria (vedi ad esempio gli album di matrimonio). Le foto fatte con i cellulari sono spesso foto legate al momento, possono essere paragonate all’esperienza. Chi
dice che ci sono troppe foto pensa che ci sia una sorta di accumulo, ma in realtà, nonostante tutte le fotografie scattate vengono salvate automaticamente all’interno di qualche memoria, queste scorrono ed “evaporano”, la maggior parte di queste fotografie non le rivedremo mai più (ormai sono gli algoritmi dei social a ricordarci le foto scattate).
Paolo Pellegrin ha detto: “ho smesso di chiedermi se le fotografie cambiano la storia, io non le faccio per questo, ma le faccio perché è necessario che ci lasciamo dietro alcuni documenti impugnabili”. Impugnabili è un termine che ha molti significati, rappresenta qualcosa di tangibile, una traccia che rimane nella storia. Sono dei veri e propri documenti. I fotografi hanno quindi questa responsabilità, un fotografo deve avere la competenza di capire come si selezionano (attraverso lo strumento fotografico) degli aspetti del reale che possano coagularsi in un documento impugnabile. Questo è quello che fanno i fotografi professionisti per conto della collettività.
9) La crisi della fotografia e del fotogiornalismo potrebbe essere evolutiva?
A dispetto di tutte le previsioni, il fotogiornalismo anche nella forma più tradizionale dell’immagine singola resiste ancora. E’ stato dato per morto molte volte, con l’avvento della radio, della tv, internet, il cinema… si pensava che l’immagine in movimento avrebbe sostituito l’immagine statica. Ciò non è però avvenuto perché la nostra memoria ricorda i fotogrammi e non le immagini in movimento.
Inoltre, a proposito della rivista LIFE si diceva che la vera storia sta tra lo spazio bianco tra le due fotografie. Passando da una fotografia all’altra l’osservatore deve fare lo sforzo di fare un collegamento. Non è come per il cinema che rende questo passaggio maggiormente passivo, nella narrazione fotografica lo spettatore diventa parte attiva del racconto.
10) Vorresti aggiungere qualcosa? Se dovessi dare un consiglio a qualcuno che si approccia per la prima volta alla fotografia, da cosa consiglieresti di iniziare?
Relativamente all’ultima domanda, bisogna stare attenti a non sbattere il naso contro il vetro. John Szarkowski, curatore del MoMa dagli anni Sessanta, divideva le fotografie in finestre e specchi. Ci sono fotografi che fanno fotografie come se fossero finestre attraverso le quali si guarda, e altri fotografi che fanno fotografie come se fossero specchi attraverso i quali noi vediamo i fotografi. Io penso che sia uno schema utile, ma una fotografia può anche essere entrambe le cose insieme. Spesso quando guardi attraverso il vetro di una finestra vedi anche il riflesso del tuo volto che si confonde col paesaggio. C’è sempre un pò di te dentro quello che stai guardando, anche se sul momento non te ne accorgi. E soprattutto non bisogna fare l’errore di affacciarti troppo velocemente alla finestra perché altrimenti sbatti il naso contro il vetro.
11) In conclusione, come si potrebbe estendere questo linguaggio ad una comprensione/interesse di massa?
Io credo già che ci sia un interesse di massa, ormai tutti facciamo fotografia, per motivi diversi. Bisogna rispettare tutti gli utilizzi della fotografia. Ci sarà un motivo se da quando c’è
la fotografia digitale si vendono tantissimi libri di fotografia. La gente ha voglia di fare fotografie soddisfacenti, anche chi non è un autore o fotografo di professione. A tutti piace parlare bene. La gente ha voglia di migliorare il linguaggio fotografico, essendo ormai uno dei principali mezzi di comunicazione. Si ha voglia di utilizzare questo linguaggio in maniera consapevole.
La fotografia dovrebbe entrare nelle scuole, ma non in modo istituzionale. Ci sono due cose che hanno una presa immediata in un ragazzo adolescente: fare belle fotografie e scrivere belle poesie. Sono due linguaggi di espressione molto potenti.
[1] https://fondazioneninomigliori.org/it/nino-migliori/opere/
Consigli di approfondimento:
https://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/
- The ballad of sexual dependancy, Nan Goldin, 1986.
- Il caso Minamata, film del 2020 diretto da Andrew Levitas, adattamento cinematografico dell'omonimo libro di Aileen Mioko Smith e William Eugene Smith, narra le vicende di quest'ultimo, fotografo documentarista statunitense, interpretato da Johnny Depp.
- Ferdinando Scianna, Viaggio, racconto e memoria, Catalogo della mostra (Forlì, 22 settembre 2018-6 gennaio 2019.
- Ferdinando Scianna, Autoritratto di un fotografo, Contrasto, 2021.
- Josef Koudelka, Gypsies, 1967.
- Josef Koudelka, Exiles, 1988.
- Tony Gentile. Sicilia 1992. Luce e memoria. Ediz. italiana e inglese. Silvana, 2022.
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