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LA PERCEZIONE CREATRICE - Dewey, Winnicott, Simondon



Questo articolo si propone di analizzare il rapporto fra percezione e creazione, al fine d’introdurre l’idea di un processo creativo immanente alla percezione stessa. C’interessa mostrare la costitutiva instabilità del rapporto percettivo con l’oggetto, il momento di rischio, indeterminatezza e, dunque, di creatività, nel prendersi carico di tale processo. Per fare questo, ci muoveremo a partire da elementi ricavati da Arte come esperienza di John Dewey, Gioco e realtà di Donald Winnicott e L’individuazione di Gilbert Simondon; riflessioni appartenenti a tradizioni eterogenee, non sovrapponibili e irriducibili a qualsiasi forma di articolo, eppure, capaci d’incontrarsi in vista di un medesimo percorso concettuale.




Percezione e ricreazione


In Arte come esperienza, l’itinerario speculativo deweyano affronta molteplici punti utili a chiarire il processo creativo sopracitato. Non è un caso, allora, se per aiutarci in questo compito partiamo da un testo che tematizza l’arte fin dal titolo dell’opera. Infatti, uno dei modi maggiormente proficui per addentrarci nella nostra questione è un approccio critico rispetto alla ripartizione fra artistico ed estetico. Una prima distinzione di senso comune associa all’artistico un’accezione fattiva, un processo produttivo che implica la trasformazione di un materiale; laddove l’estetico è immediatamente legato al carattere fruitivo, valutativo e riconoscitivo di un’esperienza, in ogni caso, qualcosa che verte decisamente sulla consumazione di un’opera o di un prodotto. Una simile distinzione/segregazione (come nota Dewey, presente soprattutto nella lingua inglese), nonostante possa essere adoperata in termini regolativi, implica l’assenza di un nesso strutturale fra creazione e percezione. Tale divisione grava anzitutto sul lato “creativo”, ignorando come


«il fare o creare è artistico quando il risultato percepito è di natura tale che le sue qualità in quanto percepite hanno dominato il problema della produzione»[1]

I due momenti, trovandosi previamente in una relazione organica, possono scindersi solo tramite un’operazione astratta e posticcia; allora, nel processo artistico, l’attività del creatore incarna quella del percipiente «così come durante la creazione Dio contemplò la sua opera e la trovò buona»[2].


Volgendoci ugualmente verso il “percettivo”, possiamo trovare un primo sconfinamento dall’accezione passiva del riconoscimento intendendo la ricezione come ri-creazione. Non si tratterà allora solo di accogliere delle forme predefinite, bensì, di riavviare continuamente un’attività ricostruttiva che rigeneri contemporaneamente l’elemento materiale e la coscienza che pone sé stessa nell’operazione: «senza un atto di nuova creazione l’oggetto non viene percepito come un’opera d’arte»[3]. Il campo artistico offre un ottimo esempio rispetto alla proprietà ricreativa del percepire, ma potremmo ampliare quest’ultima al di là di esso, estendendola alla percezione nella sua totalità. Ogni percezione è temporale, dato che non vi è intenzione[4] dell’oggetto al di fuori di un decorso, e temporalizzante, in quanto assimilando presente e passato a ogni ritensione[5], ne consegue sempre una certa ricostruzione retroattiva del passato. Lungi dal sussistere fuori dal tempo, nascendo dunque sempre già morta, da ogni percezione scaturiscono al contempo una rivisitazione e una rigenerazione del pregresso, permettendo il delinearsi di un insieme dinamico destinato a riconfigurarsi continuamente. Insieme che assume, parallelamente a ogni strutturazione, la facoltà di incidere sugli stessi elementi che hanno concorso a formarlo. Ciò significa scavalcare l’accezione che porta ad affacciare la passività del percipiente alla neutralità del percepito, al di là di «un’analisi della percezione volta a discriminare tra ciò che s’impone ai sensi e la forma che chi percepisce apporrebbe al materiale percepito»[6]. Un punto limite in cui andrebbero a confondersi l’apposizione e l’imposizione di una forma, similmente al senso datoci di essa dalla psicologia della Gestalt. Se le forme, quelle ottiche ad esempio, sembrano imporsi per certi versi “coercitivamente”, non possiamo dire che tali unità si trovino “nel mondo”, come non possiamo ridurre lo stagliarsi di una forma, determinante per l’assetto percettivo del soggetto, a componenti strettamente fisiologiche.




La radicalità di una concezione della percezione come quella che va delineandosi, risiede nel non intendere il significato e la tonalità emotiva, la Stimmung, quali termini meramente addizionali; piuttosto, «L’aisthesis è di per sé evenienza pregnante di senso»[7], quel senso definito da Dewey come “significato incarnato”. Come la percezione non viene intaccata da un “fuori” tramite una significatività derivata, per un organismo non si tratta semplicemente di accogliere in maniera passiva degli stimoli ambientali. Tale questione viene affrontata da Dewey in uno scritto del 1896, The reflex arc concept in psychology, laddove, criticando la nozione di arco riflesso, egli propone quella di “circuito organico”: se il primo poggia su una relazione causale fra uno stimolo percettivo e una risposta motoria, il secondo non ignora il carattere selettivo della percezione. L’organismo ha un rapporto selettivo con l’ambiente, non figura come un fondo su cui degli stimoli si riversano incondizionatamente. La percezione perde così la sua “innocenza” assieme alla sua neutralità, trasponendo la “circolarità ermeneutica” sul versante percettivo: la pregnanza di uno stimolo ambientale rispetto a un determinato organismo presuppone l’operare preliminare di un’organizzazione senso-motoria. In questo modo, Dewey ci aiuta a intendere la «storicità del trascendentale già a livello percettivo»[8]: la dinamica percettiva è sempre orientata “verso” dei campi di significatività e orientata “da” un apriori storico.


«Il soggetto non può sbarazzarsi di significati resi solidi dal suo rapporto passato con le cose che lo circondano, nè può liberarsi dall’influenza che essi esercitano su cosa e come egli vede al momento. Se potesse farlo e lo facesse non gli rimarrebbe nessun modo di vedere un oggetto»[9]


Percezione e transizione


Dopo Dewey, passiamo dalla teorizzazione filosofica a quella psicoanalitica, attraverso una disamina dell’“oggetto transizionale” coniato da Donald Winnicott. Costui vi giunge osservando la tipica situazione infantile per cui alla stimolazione orale tramite il pollice o altre dita, che ha inizio con la nascita, si accompagna, dopo i primi cinque o sei mesi di vita, la sostituzione della mano attraverso oggetti verso cui il bambino instaura una vera e propria dipendenza. Parliamo di bambole, peluche, giocattoli, o anche di coperte o semplici lembi di tessuti. Tali oggetti introdurrebbero gli infanti verso delle prime not-me possessions: dall’eccitamento orale passiamo a qualcosa di inerente alla relazione del bambino con l’ambiente esterno. Gli oggetti che appaiono a questa età come una sorta di appendice del bambino, lo iniziano a un’indagine verso la natura stessa dell’oggetto tramite il riconoscimento del non-io che esso incarna. Ciò ci porta in una zona di confine che non coincide né con la realtà esterna (che il bambino non è ancora in grado di riconoscere e situare completamente), né con il movimentato mondo interno del bambino (come scrive Winnicott, l’oggetto transizionale si discosta dagli “oggetti interni” di matrice kleiniana). Siamo invece all’interno di una terza componente esperienziale, una realtà di transizione in cui si situano appunto gli oggetti transizionali, i quali, occupando una posizione mediana tra i due poli di interno ed esterno, assumono per Winnicott una conformazione “illusoria”, laddove non dobbiamo dare nessuna accezione sminuente a questo termine.


Troviamo questa realtà di transizione fin dai primi rapporti tra l’infante e il seno materno, un’area intermedia «che è consentita al bambino tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sull’esame di realtà»[10], ed è qui che soffermiamo la nostra attenzione. Ci troviamo al punto d’incontro fra la tensione pulsionale del bambino e il presentarsi della madre, in cui, oltre a mancare una scissione fra interno ed esterno, non vi è ripartizione possibile fra ciò che viene donato e ciò che viene ricevuto:


«Non v’è alcuno scambio tra madre e bambino. Psicologicamente il bambino prende il latte da un seno che è parte del bambino e la madre dà il latte ad un bambino che è parte di sé»[11]

Questa realtà di transizione conduce allora ad una sovrapposizione fra creazione e percezione apparentemente paradossale: «per l’osservatore il bambino percepisce ciò che la madre presenta veramente, ma questa non è tutta la verità. Il bambino percepisce il seno solo nella misura in cui il seno può essere creato proprio lì e in quel momento»[12].


A questo punto, vediamo intersecarsi due elementi affrontati precedentemente grazie a Dewey. Anzitutto, come con la precomprensione percettiva che abbiamo visto a partire da Dewey, il seno può essere percepito/creato solo grazie a una precondizione necessaria (non una causazione): la madre deve porre il seno “reale” laddove il bambino è pronto a crearlo. Inoltre, anche in questo caso, la percezione è accompagnata da un’operazione di ricreazione: «il seno viene creato dal bambino più e più volte a partire dalla sua capacità di amare o (si potrebbe dire) dal suo bisogno»[13]. Come il medium espressivo in un’esperienza estetica, il seno non è né oggettivo né soggettivo: «è la materia di una nuova esperienza in cui soggettivo e oggettivo hanno cooperato in modo che nessuno dei due possiede più un’esistenza di per sé»[14]. La realtà transizionale, al pari del campo estetico, poggia sulla cooperazione fra organismo e ambiente, tramite un’integrazione così fitta da far scomparire il polo oggettivo e quello soggettivo.


Il compito della madre, di una “good enough mother”, sarà allora quello di permettere questa dinamica illusoria; starà a lei presentare quella precondizione necessaria che permetterà il traghettamento dell’infante dal principio di piacere al principio di realtà, dal narcisismo primario alla relazione oggettuale. Ma questo passaggio, dall’illusione alla disillusione, non corrisponde alla rigida transizione da un sistema allucinatorio al rinvenimento di una realtà “oggettiva”. Possiamo dire, infatti, che la fase dell’onnipotenza infantile relativa al narcisismo primario ha marchiato permanentemente il rapporto con l’oggetto, a partire dalla circolarità fra percezione e appercezione presente nella creazione dell’oggetto transizionale. Crescendo, il disinvestimento dell’oggetto transizionale non comporta la sua rimozione o la sua introiezione, esso viene piuttosto


«relegato in un limbo […] e ciò perché i fenomeni transizionali divengono diffusi, occupano l’intero territorio intermedio tra la realtà psichica interna e il mondo esterno come viene percepito, in modo comune, tra due persone, vale a dire l’intera area culturale»[15]

Di conseguenza, il carattere creativo della percezione persiste col persistere dei fenomeni transizionali. A partire dalle prime relazioni con gli oggetti transizionali, vi è dunque per Winnicott il mantenimento di una tensione nel rapportare la realtà del soggetto al mondo esterno, tensione che può risolversi solo grazie a quel campo transizionale che va formandosi tra individuo e ambiente.




Percezione e individuazione


L’ultimo autore che ci preme affrontare ai fini di questo articolo, con particolare riguardo al ruolo inventivo e individuante che dona alla percezione, è Gilbert Simondon. Nel primo capitolo (L’individuazione delle unità percettive e il significato) de L’individuazione psichica - terza sezione della sua tesi di dottorato L’individuazione alla luce della nozione di forma e d’informazione - il filosofo francese si sofferma su un problema che abbiamo già incontrato parlando di Dewey, ovvero, quello dell’imposizione e dell’apposizione di una forma, relativamente al senso datogli dalla psicologia della Gestalt. La critica che Simondon rivolge alla psicologia della forma è di mantenere un’implicita posizione innatista: se le unità percettive vengono colte immediatamente secondo le leggi di pregnanza[16], è perché queste sono predeterminate: un «determinismo della “buona forma”»[17] che, anteponendo la predeterminazione delle forme (assieme alla loro gerarchizzazione) al momento percettivo, scavalca l’operazione della loro genesi.


In questo senso, la psicologia della forma rappresenterebbe la controparte dell’associazionismo nell’ignorare la genesi delle unità percettive. Anche quest’ultimo si fermerebbe infatti a una spiegazione innatista, dato che l’associazione per contiguità (l’abitudine), con cui l’associazionismo spiega «come mai il soggetto colga gli oggetti in modo distinto e non piuttosto alla stregua di un continuum confuso di sensazioni»[18], non è altro che


«un dinamismo in grado di comunicare alla percezione solo ciò ch’esso stesso possiede, ovvero le suddette unità e continuità temporali che si inscrivono nell’oggetto sotto forma di unità e continuità statiche del percetto»[19]


A questo punto, rifiutare di analizzare le unità percettive al di qua o al di là della loro genesi ci aiuta a mettere in luce qualcosa della percezione stessa, la quale


«non consiste nel cogliere una forma, quanto, piuttosto, nella soluzione di un conflitto, nel reperimento di una compatibilità e nell’invenzione di una forma. Questa forma, che consiste appunto nella percezione, modifica non solo la relazione dell’oggetto e del soggetto, ma anche la struttura dell’oggetto e quella del soggetto»[20]

Vediamo allora come studiando le forme a partire dalla loro genesi, smettiamo d’intenderle come qualcosa che viene “trovato”; contemporaneamente, la percezione assume un ruolo creativo, svolgendo un vero e proprio atto d’individuazione. Con quest’ultimo termine entriamo a pieno nella riflessione filosofica simondoniana. Lo affronteremo metonimicamente, attraverso le nozioni di preindividuale e di metastabilità. Col primo termine, Simondon si riferisce a una realtà che precede l’individuo non esaurendosi in seguito all’individuazione di quest’ultimo, mantenendo dunque un campo potenziale “associato” all’individuo, il quale, permette il susseguirsi di nuove individuazioni o, meglio, la continuazione di un processo d’individuazione. Il pre-individuale non precede l’individuato temporalmente o tramite una causazione logica, piuttosto, coesiste con l’individuale al pari delle fasi in un sistema complesso, in cui stati solidi, liquidi e gassosi compartecipano senza escludersi:


«l’individuo sarebbe così concepito come realtà relativa, come una certa fase dell’essere che presuppone una realtà preindividuale e che, anche dopo l’individuazione, non esiste di per sé, poiché, a sua volta, l’individuazione non esaurisce di colpo i potenziali della realtà preindividuale»[21]

Ogni sistema pre-individuale si trova allora in una situazione metastabile, definibile come «una condizione di equilibrio in sistemi complessi, la cui stabilità può essere facilmente rotta dall’apporto di una piccola quantità di energia o informazione»[22]. Uno stato che incorre nel costante rischio dello sfasamento, attualizzando le sue cariche potenziali in nuove strutturazioni.


Detto questo, Simondon intende l’individuazione come il cambiamento strutturale di un sistema fisico, cambiamento che mantiene tuttavia una natura pre-individuale “associata” all’individuo, sorgente di stati metastabili da cui si genereranno ulteriori individuazioni[23]. Se la percezione è una forma d’individuazione è perché l’ambiente in cui si genereranno le unità percettive è un insieme metastabile, carico di potenziali che possono incorrere in forme di risoluzione. Sostenere l’anteriorità di queste unità significherebbe invece supporre un ambiente già individuato, ma la percezione non può isolare ciò che è già stato isolato.



L’unità è instaurata dal gesto percettivo, creata dal gesto percettivo; come scriveva Dewey, «ogni percezione cosciente comporta un rischio; è un’avventura nell’ignoto»[24], e questo perché l’equilibrio metastabile richiede continuamente alla percezione nuove forme di coerenza. La stessa relazione tensiva che secondo Winnicott accompagna il rapporto col mondo esterno fin dalla dinamica infantile, sembrerebbe allora presentare un equilibrio metastabile, saturandosi “creativamente” a partire dalle soluzioni offerte dallo spazio transizionale. Inoltre, anche in Winnicott troviamo un elemento “storico” al pari del processo d’individuazione osservato da Simondon: sia il germe strutturale che il seno materno devono presentarsi in un determinato momento per permettere l’individuazione a partire da un campo metastabile/transizionale. Probabilmente, osserviamo questa funzione di campo nella relazione con qualsiasi oggetto artistico, laddove lo spettatore e l’opera proposta dall’artista creano insieme uno spazio transizionale. Allora, lo spettatore si trova a confrontarsi con una tensione relativa all’oggetto artistico che chiede una risoluzione, una tensione che non deve essere risolta, ma che offre infinite potenzialità captabili dal percipiente.



Infine, non possiamo non ribadire come un cambio di prospettiva rispetto al ruolo e alla natura della percezione, si accompagni contemporaneamente ad un’alterazione prospettica rispetto alla nozione di forma, la quale, parimenti lontana da una concezione innata, permanente e originaria, sembra ora avvicinarsi all’accezione datane da Nietzsche in La teleologia a partire da Kant, laddove essa è da intendersi come continua mutazione e deformazione, «come un emergere dal flusso indistinto e caotico di un momentaneo resistere alla forza dissolvente del divenire»[25], fino a concedergli un valore puramente regolativo:


«il nostro intelletto è troppo ottuso per percepire la continua trasmutazione: ciò che gli è conoscibile lo chiama forma. In verità non ci può essere forma alcuna perché in ogni punto sta un’infinità»[26]

L’emergere della forma come imporsi temporaneo di una parzialità prospettica, riscontrabile in Nietzsche su diversi piani (gnoseologico, assiologico, estetico ecc.), può venire qui esteso al campo percettivo, ovvero: entro lo sforzo necessario di riportare a una precaria unità una pluralità irriducibile, il processo al contempo gnoseologico e percettivo di esplorazione del mondo non differisce dal processo di formazione dello stesso.




Conclusione


Abbiamo osservato diverse declinazioni di quella che potremmo definire una percezione creatrice. Con Dewey, anzitutto, a partire dal duplice movimento di creazione e ricreazione insito in ogni ricezione, in seguito, grazie a quella realtà di transizione fra percezione e creatività illuminata da Winnicott; infine, con Simondon, intendendo la percezione come una forma d’individuazione, rimarcando il suo ruolo attivo nella genesi delle unità percettive. Concludendo, vogliamo sottolineare come in Dewey e in Winnicott si possa trovare, in relazione alle riflessioni sviluppate in questo articolo, una rivalutazione del fenomeno artistico, ora impossibilitato a sussumere completamente l’“al di qua” dell’estetico, al contempo, l’esplicito rifiuto di una gerarchizzazione dell’estetico entro la quale l’artistico occuperebbe una funzione privilegiata.


L’intera costruzione di Arte come esperienza parte da uno spostamento dell’attenzione, in un libro che intende indagare il fenomeno artistico, verso quelle condizioni “quotidiane” dell’esperienza che vengono abitualmente relegate fuori da un possibile approfondimento estetico. A riguardo, il principale compito filosofico deweyano è «ripristinare la continuità dell’esperienza estetica con i processi normali del vivere»[27], il cui ostacolo principale è quella «concezione isolazionista dell’arte»[28] che tenta di riportare continuamente quest’ultima unicamente alla sua accezione museale.

Potremmo dire, con Dewey, che l’estetico non si riduce all’artistico, illuminando il campo esperienziale prima di qualsiasi teoria o filosofia dell’arte. Di conseguenza, l’arte non rappresenta uno sbocco necessario dell’estetico, un suo compito immanente o una sua risoluzione esplicativa, quanto piuttosto un’intensione qualitativa di quest’ultimo:


«si potrebbe dire che il suo compito è di rendere evidenti leggi estetiche che governano complessivamente il percepire anziché particolari contenuti sentiti o pensati»[29]

Anche in Winnicott troviamo un ridimensionamento della produzione artistica. Prima di tutto, relativo al timore che le concrezioni artistiche adombrino le innumerevoli produzioni creative che costellano il quotidiano, senza per questo condensarsi in qualcosa di trasmissibile o riconosciuto. In questo senso, piuttosto che alla sistematizzazione di una teoria estetica, Winnicott è interessato a rilevare il processo creativo insito nella relazione percettiva, a partire dai primi tentativi infantili di creare un mondo a partire da ciò che li è più vicino, come «pasticciare con le feci, o continuare a piangere solo per sentirne il suono»[30]. Fino a descrivere l’attività creativa in termini quasi tautologici, facendola combaciare con l’esistenza stessa o col semplice rapportarsi alla realtà esterna:


«è necessario, come ho già detto, separare l’idea di creazione dalle produzioni artistiche […] la creatività di cui mi occupo qui è universale. Appartiene al fatto di essere vivi»[31]

 

[1] J. Dewey, Arte come esperienza, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2007, 2018, p. 72. [2] Ivi, p. 73. [3] Ivi, p. [4]Anziché intendere la volontaria e attiva tensione verso l’oggetto entro l’attività percettiva, con questo termine ci riferiamo piuttosto all’intenzionalità husserliana, per la quale ogni coscienza è coscienza di qualcosa; ovvero, in ogni percezione è implicata la correlazione fra una noesi e un noema, fra un vissuto “intenzionale” e un oggetto “intenzionato”: né un oggetto mentale né un oggetto indipendente dall’atto che lo pone, bensì un’interdipendenza che porta un’alterazione del polo noetico in seguito ad un’alterazione del polo noematico, e viceversa. In questo modo, la stessa trascendenza dell’oggetto, il suo non ridursi ai nostri atti soggettivi, emerge anch’essa all’interno di un rapporto intenzionale. [5] Ogni momento intenzionale non può dispiegarsi, sempre in termini husserliani, che per una “coscienza interna del tempo” che abbraccia, in quanto polo sintetico, ogni vissuto. Il percepito acquisisce allora una sensatezza percettiva grazie al suo inserirsi in un decorso temporale ritensivo-protensivo, laddove ogni momento porta con sé delle anticipazioni che dovranno essere confermate e delle interpretazioni retrospettive su ciò che è già passato. Ad esempio, ascoltando una melodia, riconosciamo gli errori e le stonature grazie al fatto che ci aspettiamo qualcosa dal brano anche non conoscendolo in anticipo, al contempo, il suono appena decorso e dunque non più “presente” non scompare senza lasciare traccia, ma permane in quanto alone di sensatezza dei nuovi suoni che vanno susseguendosi. [6] G. Matteucci, Il paradigma estetico-antropologico di Dewey: analisi e prospettive in Dall’arte all’esperienza. John Dewey nell’estetica contemporanea, Mimesis, Milano, 2015, p. 17. [7] Ivi, p. 27. [8] Ivi, p. 37. [9] J. Dewey, op.cit., p. 107. [10] D. Winnicott, Gioco e realtà, Armando Editore, Roma, 2019, p. 29. [11] Ivi, p. 31, [12] Ibidem. [13] Ivi, p. 29. [14] J. Dewey, op.cit., p. 277. [15] D. Winnicott, op. cit., p. 19. [16] Col termine “pregnanza” la psicologia della forma intende un fattore generale, dal momento che vale per ogni soggetto indipendentemente dalla sua esperienza individuale, essenziale per la determinazione delle forme percepite. L’attività percettiva presenterebbe una tendenza alla pregnanza, una pressione formativa quale “significatività originaria” dei rapporti psichici, prediligendo le soluzioni più regolari, omogenee e stabili, ovvero, il sistema di rapporti di una forma che presenti minori contrapposizioni. Allora, una forma risulterà tanto più “buona” quanto più si avvicinerà alle caratteristiche appena citate, imponendosi con un minore o maggiore grado di coercizione al sistema percettivo. [17] G. Simondon, L’individuazione alla luce della nozione di forma e d’informazione, Mimesis, Milano, p. 317. [18] Ivi, p. 315. [19] Ibidem. [20] Ivi, 318. [21] Ivi, p. 33. [22] «It defines a condition of equilibrium in complex systems, the stability of which can be easily broken by the intake of a little bit of energy or information» (A. Bardin, Epistemology and political philosophy in Gilbert Simondon, Springer, p. 6). [23] Un’analogia ripresa continuamente dal filosofo per spiegare l’individuazione, è il processo di cristallizzazione che ha luogo in seguito all’incontro fra una soluzione sovrasatura, la quale presenta un livello elevato di energia potenziale, e un germe cristallino, caratterizzato invece da un’elevata strutturazione interna. Il germe funge da punto di partenza per la cristallizzazione, interrompendo l’equilibrio metastabile presente nella soluzione e apportando momentaneamente uno stato stabile attraverso un’informazione; tuttavia, la formazione di un cristallo non esaurisce il carico potenziale, passibile di ulteriori individuazioni. Se, come osserva Simondon, è la relazione stessa fra il mondo e l’individuo ad assomigliare a una soluzione sovrasatura, «la percezione consiste nella risoluzione che trasforma in struttura organizzata le tensioni che intaccano questo sistema sovrasaturo»(G. Simondon, op.cit., p. 330), istituendo una saturazione precaria e temporanea alla relazione. [24] J. Dewey, op. cit., 265. [25] M. Guerri, L’infinito nella forma in F. Nietzsche, La teleologia a partire da Kant, Mimesis, Milano, 1998, p. 38. [26] Ivi, p. 101. Riflessioni che, come nota e riporta Maurizio Guerri commentando il testo di Nietzsche, sono grandemente influenzate dalla distinzione posta da Goethe, a livello morfologico, tra forma e formazione, Gestalt e Bildung: «per indicare il complesso dell’esistenza di un essere reale, il tedesco si serve della parola Gestalt, forma; termine nel quale si astrae da ciò che è mobile, e si ritiene stabilito, concluso, fissato nei suoi caratteri, un tutto unico. Ora, se esaminiamo le forme esistenti, ma in particolar modo le organiche, ci accorgiamo che in esse non v’è mai nulla d’immobile, di fisso, di concluso, ma ogni cosa ondeggia in un continuo moto. Perciò il tedesco si serve opportunamente della parola Bildung, formazione, per indicare sia ciò che è già prodotto, sia ciò che sta producendosi. Ne segue che, in una introduzione alla morfologia, non si dovrebbe parlare di forma e, se si usa questo termine, avere in mente soltanto un’idea, un concetto, o qualcosa di fissato nell’esperienza solo per il momento» (J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, Guanda, Parma, 1983, p. 43). [27] J. Dewey, op.cit., p. 37. [28] Ivi, p. 35. [29] G. Matteucci, op.cit., p. 28. [30] D. Winnicott, op.cit., p. 117. [31] Ivi, p. 115.






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