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Nostalgie della morte nella cybercultura fotografica


 

Testo di: Francisco Scalese

Editing di: Yuri Sassetti e Andrea Peverelli

 




Playa del Carmen, 1996. È ora di cenare per questi tre turisti americani, che guardano in camera spronati dall'euforia registica dell'operatore, esaltato probabilmente dalla sua nuova camcorder MiniDV. Un tavolino di plastica vicino al mare, adagiato sui terreni carsici dello Yucatán, attende le pietanze, mentre le birre sono già consumate per metà. Sullo sfondo, la chioma di una palapa e le foglie delle palme testimoniano una giornata priva di vento, ideale per farsi un bagno veloce dopo il pasto. La donna in piedi, moglie dell'uomo con i baffi, porge un saluto all'obiettivo, come se già fosse proiettata nel futuro e si immaginasse i parenti e gli amici guardarla nel salotto di casa. 

C'è qualcosa in questo frame, estratto da un filmino di famiglia caricato su YouTube; qualcosa che colpisce con forza e che prescinde da ogni interpretazione iconologica. È quello che Roland Barthes, in un famoso saggio sulla fotografia, chiama secondo punctum: non solo il campo denotativo dei dettagli che sfuggono alla concettualizzazione interpretante del materiale registrato, ma l'impalcatura temporale stessa. 


«La foto è bella, il giovane anche: è lo studium. Ma il punctum, è: sta per morire. Io leggo nello stesso tempo: questo sarà e questo è stato; osservo con orrore un futuro anteriore di cui la morte è la posta in gioco. Dandomi il passato assoluto della posa, la fotografia mi dice la morte al futuro» (Barthes, 2003). 

Richiamando l'attenzione sulla teoria della posa, esposta in apertura al saggio, ciò che Barthes vuole intendere con il concetto di mortalità è l'idea di un tempo che è trascorso; e, con essa, l'idea di cambiamento: elemento che trasforma il fotogramma in un istante irripetibile. Il carattere fotografico che punge, allora, è il paradosso instauratosi fra il vedere una cosa ormai trascorsa e la sua relazione con un futuro prossimo da dover ancora vivere, in cui l'impressione fotochimica indica l'attualità presente di un'inesistenza che tuttavia, per un istante, è stata. Da questo punto di vista siamo portati, così, a torcere lo sguardo di centottanta gradi in direzione di un passato proiettato su un futuro possibile.

Se c'è un tratto ricorrente nelle sottoculture digitali del presente è il ricorso a una cosmologia stilistica impregnata, a diversi gradi, di un'estetica della nostalgia. Così come per il fotogramma dei

turisti americani, le nicchie culturali core nostalgiacore, kidcore, dreamcore, ecc. – e le community degli spazi liminali e delle backroom (o anche casi mediatici, come il film Skinamarink) si lasciano coinvolgere non tanto, o non soltanto, da contenuti ormai andati perduti – giochi d'infanzia, programmi televisivi, indumenti  –, che tuttavia possono tornare con la veste del vintage, quanto dal paradosso di un tempo che è già trascorso ma comunque accessibile e visibile nel presente attraverso enormi discariche di bit. Altrimenti, non si potrebbero spiegare le diversità fra le varie correnti mantenendo il minimo comune denominatore della fotografia analogica o protodigitale, spesso e volentieri adoperate per ritrarre luoghi mai visitati o comunque poco riconoscibili, quasi astratti. Sarebbe più corretto parlare, in questi casi, anziché di estetiche della nostalgia, di estetiche dell'anemoia – espressione dell'interesse visivo per spaziotempi mai vissuti, ma in grado di suscitare sentimenti nostalgici (il termine è di recente conio, consultabile nel Dizionario delle tristezze senza nome di John Koenig, ispirato dalla parola tedesca Fernweh). 





Questa doppia natura della fotografia e questa precisa modalità di fruizione del paradosso anemoico, sollevati in primis dalla riflessione barthesiana sul concetto di posa, trovano una sollecitazione topologica nelle eterotopie di Michel Foucault. La sollecitazione è così puntuale che si potrebbe articolare ulteriormente il nostro discorso e affermare che l'anemoia è, in ultima istanza, il sentimento di nostalgia verso un'eterotopia. Ma cos'è un'eterotopia? I luoghi eterotipici sono quelle regioni spaziali, realmente esistenti, che hanno «come regola quella di giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero, dovrebbero essere incompatibili» (Foucault, 2006). L'esempio più comune è quello degli specchi: nel momento in cui guardiamo il riflesso su una superficie riflettente instauriamo un rapporto diretto con un oggetto presente a noi ma che, nel medesimo istante, ci rimanda ad uno spazio “altro”; stesso discorso per luoghi come i cimiteri e le sale d'attesa, i quali fungono da tramiti verso destinazioni in cui si schiudo i “veri” significati. Per certi aspetti, le fotografie ci pungono a causa di queste contraddizioni interne all'immagine: fra passato e futuro e fra spazi vissuti e destinazioni aliene, procurandoci sensazioni perturbanti. Non si tratta tanto di un rimpianto per tempi e luoghi ormai perduti, quanto di un rivivere, attraverso lo sguardo, il presente di un'immagine che, per sua natura, è immediatamente passata nell'istante stesso della fruizione; fino a rendere il profilmico un luogo contraddittorio che non dovrebbe esistere.

A differenza della retorica della nostalgia d'inizio millennio, radicata principalmente nel rimpianto degli ultimi strascichi del boom economico, i quali avevano inoculato negli anni Ottanta e Novanta i prodotti più sofisticati del capitalismo avanzato, questa estetica dell'anemoia sembra affrancarsi dai contenuti dei ricordi in favore della contemplazione della loro matrice formale: il secondo punctum barthesiano. Sicuramente ancora molto c'è da scoprire sui fenomeni sociologici dell'oggi e tuttavia si può affermare che il modo di ricordare le cose nel mondo digitalizzato è stato

profondamente condizionato dal repentino sviluppo che la tecnica fotografica ha conosciuto negli scorsi decenni. Nel momento in cui ogni angolo di mondo si è scoperto fotografabile, la registrazione del reale è divenuta dato, documento, informazione, così che nel contemporaneo non esiste spazio che non sia stato fotografato e non esiste persona che non sia in grado di registrare, esaudendo, in un certo senso, l'antico sogno di Dziga Vertov. Attraverso la messa in posa, il passato preme sul presente con forza e le fotografie “ricordano” per noi (facendo le veci della memoria), al fine di avvicinarci la presenza di cose che portano con sé anche il loro certificato di morte. Anemoico, allora, è lo spazio della morte, che non possiamo vivere e che mai potremo vivere, ma del quale possiamo fare esperienze pungenti (punctum) mediante immagini impresse su supporti.

Una volta smarrito il soggetto ritratto ciò che rimane è il ricordare per ricordare, un presente fotografico che eleva anche il rifiuto a elemento memorizzabile. Se ne era accorto, con lungimiranza, Siegfried Kracauer quando, in uno studio sui fenomeni delle masse, aveva detto: 


«La memoria non comprende né l'immagine spaziale totale né l'intero decorso temporale di un evento. Rispetto alla fotografia, le sue annotazioni sono incomplete. […] Mentre la fotografia coglie il dato fattuale come un continuum spaziale (o temporale), le immagini della memoria trattengono tale dato, in quanto ad esso inerisce un qualche significato. Poiché tale significato non si esaurisce in una relazione di tipo esclusivamente spaziale né, tanto meno, in una di tipo solamente temporale, le immagini della memoria risultano ʻsghembeʼ a confronto di quelle della riproduzione fotografica» (Kracauer, 1982). 




Se nel passato si è cercato il più possibile di trattare lo strumento della diapositiva alla stregua di una memoria tangibile, nel tentativo di preservarne i meccanismi interni di selezione e rimozione, la fotografabilità totalizzante del contemporaneo considera la registrazione nel suo intero, nel suo spazio totale privo di significato proprio; spazio che, essendo considerato in astratto, è presenza di eterotopie perturbanti, nelle quali si annida, a discapito della tradizione, il secondo punctum: varco di accesso privilegiato a sentimenti autenticamente rinnovati[1] [2] .

 


 

  

Riferimenti bibliografici

R. Barthes, La camera chiara, Einaudi: Torino, 2003.

M. Foucault, Utopie. Eterotopie, Napoli: Cronopio, 2006.

S. Kracauer, La fotografia, in S. Kracauer, La massa come ornamento, Napoli: Prismi Editrice Politecnica, 1982.

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