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Quaderno di traduzioni /2 - Sole Solution di Eric Frank Russell

Eric Frank Russell, uno dei padri fondatori della fantascienza inglese e del linguaggio fantascientifico contemporaneo. Annoverato insieme al suo coetaneo e collega americano Edmond Hamilton fra i grandi precursori e maestri del genere da scrittori del calibro di Asimov, Dick, Bradbury ed Heinlen. Di formazione tecnico-scientifica, inizia a scrivere racconti di fantascienza negli anni ’30, e sempre in quegli anni si diletta di possibilità di comunicazioni interplanetarie, arrivando anche a progettare prototipi di navi spaziali sui modelli del futurologo sovietico e padre della missilistica e della cosmonautica Konstantin Ciolkovskij. All’età precisa di sessant’anni, nel 1965, smette improvvisamente di scrivere, e non riprende più fino alla morte.


Fortemente influenzato dalla sua biografia nomade e apolide, a contatto con svariate culture e modi di vivere, Russell è propugnatore di un filone queer della fantascienza: temi come libertà individuale, minaccia ecologica, tolleranza razziale (in Dear Devil, 1950, un alieno umanizzato viene per la prima volta presentato come più buono degli stessi esseri umani), critica al militarismo e al potere costituito, incarnato dalla burocrazia, sono tutti centrali in Russell. Al tempo stesso unisce, con uno stile a tratti solenne, ma molto più spesso ironico e leggero (tanto da valergli il titolo di “giullare e umorista della fantascienza”[1]), tematiche peculiari come il superomismo e il thriller poliziesco di matrice americana: i suoi protagonisti sono spesso bellocci muscolosi, super intelligenti, spietati e al di sopra della morale, esseri elevati dalla massa, sempre in grado di risolvere misteri tramite indagini soprannaturali e poteri mentali, facendo spesso affidamento a risorse esterne non sempre trasparenti. Tuttavia, non si occupò mai di politica o di fantapolitica, né il suo livello di realismo scientifico può definirsi rigoroso: Russell risulta così un autore disancorato dal verosimile, impregnato di tematiche weird e gotiche, tanto da arrivare a influenzare autori come Tiziano Sclavi e il suo Dylan Dog (è di Russell, ad esempio, la sua famosa imprecazione “Giuda ballerino!”). Russell è dunque un autore di pura speculazione, mai monolitico, capace di affrontare tematiche molto diverse fra loro e con trame estremamente variate: peculiare ad esempio la totale assenza di cicli narrativi, espediente tipico negli scrittori di fantascienza contemporanea (su tutti: i cicli della Robotica e della Fondazione di Asimov o il ciclo di Dune di Herbert). A lui si deve l’invenzione di gran parte dell’inventario linguistico e immaginifico del genere: le tematiche dei viaggi spaziali e di avventure ambientate su astronavi, o il concetto di alieni che interagiscono con l’essere umano, sono tropi che Russell ha contribuito a codificare in maniera definitiva.


In ultimo, è anche l’iniziatore di un filone che sarà poi di enorme importanza per pilastri del genere come Dick e Herbert: la metafisica, il soprannaturale, l’ultraterreno, il trascendente. Esemplare è il romanzo Schiavi degli invisibili (Sinister Barrier, 1939), che narra di una civiltà aliena di esseri sferici, intangibili e invisibili, i Vitoni, di cui l’essere umano è schiavo a sua insaputa: e quindi fanno in modo di aumentare, anche con mezzi catastrofici, la produzione di tensione nervosa, provocando guerre nucleari, cataclismi, odio e delitti di ogni genere. O il racconto Sole Solution, brevissimo, che qui riproponiamo nuovamente tradotto: pubblicato originariamente in antologia del 1956, verso la fine della carriera di Russel, e tradotto in italiano (fra le pochissime traduzioni dell’autore inglese) da Walter Saudi nel 1995, la cui operazione è ricca di soluzioni eleganti ma spesso in totale inaderenza al testo originale, e di una libertà traduttiva che abbiamo sentito troppo marcata.

Volete saperne di più?

Un breve testo sulla solitudine e la noia di Dio prima della Creazione, la forgia del Nulla dove, secondo il misticismo Sufi, l’Uno opera per la vita e si disfà nel molteplice. Il titolo stesso, tradotto maldestramente in italiano in un semplicistico e rivelatorio “Solitudine”, non rende giustizia della suggestione teologica del titolo: esso infatti rimanda, secondo noi in maniera molto evidente, ai Cinque Sola, le cinque formule latine che riassumono i cardini della teologia protestante (es. Sola Scriptura = con la sola aderenza al testo rivelato da Dio è possibile raggiungere la salvezza, escludendo dunque ogni intervento interpretativo esterno).

Il testo è accompagnato da un apparato di note e glosse che giustificano, in punti salienti, le scelte di traduzione contro quelle originali di Saudi, e dove secondo noi è più giusto discostarsene.


 

Covava nell’oscurità e non c’era nessun altro. Non una voce, non un sussurro. Non il tocco di una mano. Non il calore di un altro cuore.


Oscurità.


Solitudine.


Eterna prigionia dove tutto era nero e silente e nulla si agitava. Prigionia senza previa condanna. Punizione senza peccato. L’insopportabile che andava sopportato a meno che non si escogitasse qualche piano di fuga.


Nessuna speranza di soccorso da altro luogo. Nessun dolore, o compassione o pietà in un’altra anima, un’altra mente. Nessuna porta da aprire, nessuna serratura da sbloccare, nessuna sbarra da segare via. Solo la folta, profonda cappa nera[2] della notte in cui inciampare e non trovare niente.


Volgi una mano a destra e non c’è niente. Stendi un braccio a sinistra e scopri vuoto assoluto e completo. Cammina avanti nell’oscurità come un cieco perso in un palazzo vasto e dimenticato, e non c’è pavimento, né eco di passi, nulla[3] che sbarri il cammino.


Poteva toccare e percepire una cosa sola. Ed era sé[4].



Illustrazione originale di Riccardo Lamieri (https://www.instagram.com/finepiano000/)




E dunque le uniche risorse disponibili per superare i suoi impedimenti erano quelle prodotte dentro se stesso. Doveva essere lo strumento della sua salvezza.


Come?


Nessun problema è insolvibile. La scienza vive secondo questa tesi. Senza di essa, la scienza muore. Lui era lo scienziato supremo. Come tale, non poteva rifiutare questa sfida alle sue capacità.


Il suo tormento era quello della noia, della solitudine, della sterilità fisica e mentale. Non potevano né dovevano essere sopportate[5]. La fuga[6] più semplice è attraverso l’immaginazione. Ci si può anche abbandonare a una camicia di forza, ma la trappola corporale si sfugge avventurandosi nel proprio mondo dei sogni.


Ma i sogni non sono abbastanza. Sono irreali e troppo brevi. La libertà da raggiungere deve essere genuina e di lunga durata. Ciò significava che avrebbe dovuto costruire una rigida realtà di sogni, una realtà così ben congegnata che sarebbe esistita per sempre. Doveva perpetrarsi da sé. Nulla di meno avrebbe reso la fuga completa.


Dunque si sedette nel grande buio e combatté il problema. Non c’era orologio, né calendario su cui annotare la durata del pensiero. Non c’erano dati esterni da elaborare. Non c’era nulla, nulla tranne le elaborazioni nella sua mente agile.


E una tesi: nessun problema è insolvibile.


Alla fine trovò la soluzione che per lui significava la fuga da quella notte eterna. Gli avrebbe fornito esperienza, compagnia, avventura, esercizio mentale, intrattenimento, calore, amore, il suono di voci, il tocco di mani.


Il piano era tutt’altro che rudimentale. Al contrario, era abbastanza complesso da resistere al risolversi se non in eoni infiniti. Doveva essere così, se voleva essere permanente. L’alternativa da evitare era di rigettarsi nel silenzio e nel buio amaro.


Gli ci volle un gran lavoro. Dovette considerare un milione e più aspetti, insieme alle diverse conseguenze che ognuno di essi avrebbe avuto sugli altri. E una volta fatto ciò, dovette affrontare il successivo milione. E così via, e via, e via.


Costruì un colossale sogno di sua invenzione, un luogo di infinite complessità pianificate in ogni dettaglio fino all’ultimo. Al suo interno lui avrebbe vissuto una nuova vita[7]. Ma non come se stesso. Avrebbe frammentato la sua persona in innumerevoli particelle, un’immensa moltitudine di forme variegate, ognuna delle quali avrebbe dovuto scontrarsi col proprio ecosistema[8].


E lui avrebbe intensificato la lotta fino ai limiti della sopportazione applicando una totale indifferenza, intralciando le sue parti con una terrificante ignoranza e obbligandole a riscoprire tutto di nuovo. Avrebbe seminato rivalità fra di loro stabilendo le regole base di quel gioco. Quelli che vi avessero aderito, lui li avrebbe detti buoni. Coloro che avessero trasgredito, li avrebbe detti malvagi.[9] Così ci sarebbero sempre stati piccoli, infiniti conflitti all’interno dell’unico grande conflitto.


Quando tutto fu pronto, lui volle disgregarsi ed essere non più uno, ma un enorme concorso di entità, che avrebbero poi dovuto lottare per tornare all’unità originaria e a lui stesso.


Ma prima, doveva rendere il suo sogno realtà. Ah, quella era la vera prova!


Era il momento. L’esperimento doveva prendere forma.


Piegandosi in avanti, fissò l’oscurità e disse: “Sia fatta la luce”.


E la luce fu.


 

[1] G. Montanari, Ieri, il futuro: Origini e sviluppo della SF inglese, 1977; Brian Aldiss e David Wingrove, Trillion Year Spree: The History of Science Fiction, 1986. [2] Per rendere la “deep sable night”, la notte dal colore della scura e pregiata pelliccia di zibellino. [3] In originale una elegante variazione fra “naught” e “nothing”, in italiano rendibile unicamente con l’opposizione niente-nulla. [4] Russell non scrive “himself”, né “the self”, ma solo “self”: è un’espressione mediana, fra “se stesso” e il concetto metafisico di “Sé”. Nella traduzione di Saudi questo aspetto è completamente mancato e viene tradotto con “lui stesso”. [5] L’originale “They were not to be endured” Saudi lo rende con un giro di parole (“Non doveva rassegnarsi a subirle passivamente”) che personalizza il sentimento delle sofferenze di Dio. Ma la frase originale è totalmente spersonalizzata, mostra come tali tormenti fossero esterni a Dio, e non dipendenti da Lui, oltre ad avere insita nella costruzione sintattica un senso di imminenza, di destino (“was to be…”). La nostra traduzione libera crediamo permetta di riassumere questi due aspetti, completamente mancanti nella prima traduzione. [6] Saudi traduce “escape” con “via di fuga”, mancando completamente il connotato più profondo del termine, già caro al massimo teorico della letteratura fantastica, J. R. R. Tolkien: l’escapismo è concepito come fuga dalla realtà in un’altra sub-creazione che possa rendere giustizia ed emendare le storture della realtà prima, qui metaforicamente la Creazione divina a partire dal nulla, concepita da Russell come rimedio alla propria noia e solitudine. I saggi a cui tradizionalmente si fa risalire il concetto in Tolkien (Beowulf: I mostri e i Critici e Sulle Fiabe) sono del ‘36 e del ’39, dunque è possibile che vi sia stata un’influenza diretta su Russell, e che quest’ultimo abbia addirittura potuto ascoltare Tolkien a Oxford. [7] Il tema dell’incarnazione (in originale: “to be born anew”) di Dio nella materia, il verbo che si fa carne della Genesi di cui questo racconto è chiaramente una riscrittura, nella traduzione di Saudi è completamente mancato. [8] Anche qui, la traduzione va completamente fuori dai binari, senza ragione apparente, inventando frasi (“avrebbe dovuto conquistarsi a forza e a fatica il diritto alla vita”), quando Russell utilizza termini molto precisi come “environment” (l’ecosistema di un nuovo essere vivente che è appena “born anew”). [9] Si nota qui, ancora, la matrice eminentemente protestante della scrittura, a sostegno della nostra interpretazione del titolo: Russell sembra oltrepassare completamente ogni concetto di teologia morale agostiniana sul bene e il male immanenti (e il conseguente libero arbitrio, non previsto nella mentalità protestante), e non proprietà decisionale di un Dio assoluto, e in qualche modo crudele, giudice e padrone di ogni aspetto della vita terrena, vissuta in servitù.

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