Racconti | Apnea
- rivistagelo
- 10 feb
- Tempo di lettura: 6 min
Testo di Giulia Gaveglio
Illustrazione di Viola Ciarletti
Editing di Yuri Sassetti e Maria Sole Cusumano
Ce ne stavamo là, accanto alla vecchia fabbrica, quasi tutti i pomeriggi. Era lo stesso quartiere dove vivevano gli zingari, appena fuori dal paese, con le loro roulotte – proprio come la tua – e i loro gazebi di plastica. Lungo i binari del treno, che correvano verso la stazione poco distante, li si poteva vedere stendere i panni su fili da bucato sottili, legati agli alberi o ai pali della luce. Facevano poco caso a noi, perché non ci conoscevano e perché di noi, che ci stendevamo per terra nel cortile, con le mani e le ginocchia sporche di fango, non gli importava.
La fabbrica era abbandonata da un pezzo. Quel pomeriggio di ottobre, da lì sotto dove ce ne stavamo sdraiati, mi sembrava enorme, con le sue finestre senza vetri, quei corridoi lunghi e vuoti. C’eravamo entrati un sacco di volte in quegli anni. Avevamo saltato oltre le recinzioni arrugginite, attenti a non graffiarci con il filo spinato. Avevamo penetrato la carcassa del grosso animale silente, entrando nelle sue viscere. Ma non c’era più niente dentro, soltanto qualche scrivania graffiata, con cassetti spalancati, pieni di fogli sporchi, macerie e altre pietre.
Avevo allungato le gambe, ti avevo appoggiato la testa sulla pancia. Tu ti eri acceso una sigaretta e mi ero messa a fumare pure io. Guardavamo il cielo, che era grigio e uniforme. Non so cosa ci stessimo cercando dentro, ma per un istante hai allungato la mano e mi hai sfiorato distrattamente le dita, come se non avessi intenzione di farlo; e il cielo era diventato di seta, e mi era sembrato di toccarlo e questa cosa mi ha messo paura. Quando si è fatto buio ci siamo avviati verso casa. «Resta ancora un po’ con me», mi hai detto davanti alla porta. «Per favore», hai aggiunto. Ho capito che era importante, perché tu non chiedevi mai favori a nessuno, perlomeno non a voce. Aveva cominciato a piovere, e le gocce ci correvano lungo le spalle nude, giù per le braccia.
Quando tuo padre ci aveva provato la prima volta, mi avevi raccontato un giorno, avevi otto anni. Non era stato un incidente, anche se voleva farvelo credere. Non era nemmeno ubriaco: avrebbe cominciato a bere soltanto dopo, e questo lo sapevano tutti, anche se tu non me ne parlavi quasi mai. Quel giorno non eri voluto andare a cacciare i grilli. Ogni pomeriggio ci trovavamo in punta alla via, al fondo del paese. L’odore di ferro e letame annunciava giugno: io ti aspettavo all’angolo e tu mi facevi salire sulla canna della bici, quella vecchia che era stata di tua zia, con il telaio arrugginito. Non dovevamo pedalare a lungo per lasciare indietro le case: mi portavi nei campi, a cercare i grilli. Li prendevamo con le mani, fermandoli a metà di un salto da uno stelo d’erba a un altro, e li infilavamo in un barattolo di vetro su cui chiudevamo veloci un coperchio di latta che avevamo bucato con un cacciavite. Volevamo ascoltare da vicino il loro canto, quel suono strano che facevano con lo strofinio delle gambe, l’una contro l’altra, come un applauso delicato. Alla fine, li liberavi sempre. Tenevi il barattolo alzato fra di noi, all’altezza del petto, e attraverso il vetro opaco potevo scorgere la forma scontornata del tuo volto, ma tu non guardavi mai me: avevi gli occhi cupi, che si rischiaravano un poco soltanto quando sollevavi il coperchio e i grilli saltavano fuori, spingendosi l’un l’altro con foga verso l’uscita. Ero certa che in qualche modo sapessero di dovere a te il vento fresco a cui erano stati restituiti. Ti erano grati, e tu ti sentivi un po’ meno male. Ci stendevamo sull’erba, dopo, e smettevamo di parlare, finché non veniva ora di cena, e non dovevamo tornare a casa.
Quel pomeriggio mi hai fatto entrare nella roulotte, faceva freddo perché era quasi ottobre ormai, e lì non avevate il riscaldamento, solo una piccola stufa a gas che tua madre continuava a proporre di cambiare, appena tuo padre ne avesse avuto il tempo. Ci siamo asciugati con vecchi stracci che hai trovato dentro un cassetto, ci siamo tolti i vestiti bagnati e sdraiati nel letto, sotto la vecchia trapunta a fiori che puzzava di naftalina. Fuori, il temporale picchiava contro i vetri, striando lo sporco in strani disegni. Era strano ce ne fosse uno, in quella stagione. Per un po’ mi hai dato la schiena, poi ti sei voltato verso di me. Mi hai guardata con lo stesso sguardo che avevi negli occhi quando eravamo bambini, l’istante prima di aprire il barattolo e liberare i grilli, ma i grilli non li cacciavamo più da tanto tempo.
Tuo padre la sera prima aveva pianto. Era la sua ultima sera di ferie, erano durate più del solito e il giorno dopo sarebbe rientrato al lavoro. Dopo cena ti aveva proposto di andare insieme al bar del paese, una cosa che non facevate mai insieme, non aveva tempo. La richiesta ti aveva fatto piacere, ne eri felice. Tu avevi ordinato un gelato, lui una birra. Ma poi ci aveva ripensato: aveva fermato la cameriera a metà strada, per chiederle un altro cucchiaino. Avevate condiviso il gelato, come quando eri piccolo, e ancora non sapevi mangiare da solo e lui ti imboccava: un cucchiaino a te e uno a me, fragola e cioccolato che si scioglievano insieme. Ti eri accorto delle lacrime che gli cadevano giù dalla faccia soltanto quando il cucchiaino aveva toccato il fondo della coppa di vetro. Quella sera, tuo padre non aveva bevuto. La mattina dopo, l’avevi lasciato andare al lavoro senza alzarti per salutarlo.
Mentre parlavi ti sei avvicinato e mi hai avvolto le braccia intorno al corpo. E ti stringevi a me così forte che pensavo ti saresti spezzato a metà. Puzzavi di sigarette spente e dell’odore inconfondibile del terrore, così denso, quasi una patina sulle tue spalle, che avrei voluto staccare come pelle morta, pizzicandola fra le dita. Desideravo il potere di proteggerti, trasportarti da un'altra parte. Ma avevo soltanto quindici anni. Sembrava così facile perdersi, fuori da quella roulotte. Ti ho preso la mano e basta, perché altro non ero in grado di fare. Pioveva, fuori dalla finestra, il vetro rotto dall’inverno precedente non era più stato riparato e soltanto la zanzariera meccanica, di quelle che si tirano giù con un cordino, ci separava dall’esterno, dal porticato di legno che avevi aiutato tuo padre a costruire, dalla pineta secca che ora, sotto il temporale, sembrava un gregge di fantasmi dagli occhi spauriti, come i tuoi, che guardavano prima me e poi fuori: «Guarda, guarda com’è bella la pioggia». Lo dicevi con un tono che, lo so soltanto ora, significava: «Spero che mi lavi via, ti prego, lascia che mi lavi via». Eppure è venuta l’ora di cena e mi sono dovuta alzare dal letto, ho scosso i capelli con le mani, mia madre mi aspettava. Sei rimasto da solo, mentre scendeva il buio. I tuoi non erano ancora tornati a casa dal lavoro.
Quell’autunno, nessuno ha cambiato la vostra stufa. Ve ne siete andati senza salutare e non ho più saputo nulla di te, non ho avuto nemmeno un indirizzo. La roulotte è stata venduta subito dopo, immagino per pochi soldi, non so se tua madre avesse preso accordi con qualcuno. In seguito ci sono tornata diverse volte, ma nessuna delle facce che scorgevo dalle finestre mi era familiare. Doveva averla comprata qualcuno che veniva da fuori e che la abitava soltanto d’estate. Pensavo avrebbero riparato i vetri e dato mani di vernice alla veranda di legno. Invece, nessuno ha fatto nulla: nel tempo l’hanno lasciata andare e disfarsi, finché non hanno abbattuto il porticato e la roulotte l’hanno portata via. Ripenso spesso a quel giorno di ottobre, ho ancora davanti agli occhi il quadro piovoso della finestra, oltre i nostri corpi fragili che si cercavano sotto la trapunta. Vorrei averti fatto notare il tiglio in fondo alla strada. Vorrei averti fatto notare come profumava, anche se l’estate era ormai finita e pioveva. Vorrei averti fatto notare che era così verde che non aveva ancora perso le foglie, ed era così tanto verde che la pioggia continuava pure a cadere, ma non lo spostava e non lo sommergeva mai. Anche se la roulotte non c’è più, si vede ancora il tiglio, e d’estate fiorisce, è inevitabile. A volte, la sera, si sentono i grilli cantare.

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