Testo di Esther Bondì
Illustrazione di Beatrice Grassi
Editing di Sofia Artuso
Era uscito dal negozio con quel coso arrotolato fra le mani. Lo teneva in una busta di plastica, impacchettato alla meno peggio.
Ottone acidato, aveva detto il marito, appena duecento dinari. Paola non aveva commentato, quella spesa: entrambi sapevano benissimo che cosa significava.
Tornati dal viaggio, Eugenio aveva iniziato a dare segni di indebolimento. I primi giorni lamentava un po’ di stanchezza al mattino, poi gli erano venuti grandi cerchi intorno agli occhi, grigio-bluastri; finché, una mattina, proprio non riusciva ad alzarsi. Paola gli misurò la febbre: trentotto. Di andare dal medico.
Il dottore lo auscultò attentamente: respiri… ancora… aaa…
Eugenio fece a fatica tutto quello che gli chiedeva il dottore, per quanto possibile: tossiva e tossiva, in continuazione.
Insomma, dottore? Che cosa può essere? chiedeva Paola.
È difficile da stabilire con certezza. Potrebbe essere un virus, ma anche un batterio… siete stati in luoghi affollati?
Beh sa, in viaggio…
Avete mangiato fuori?
In viaggio, insomma, è piuttosto…
Avete incontrato altre persone?
Dottore, le dico, siamo appena tornati da un viaggio! quasi urlò Paola
Il dottore la smise di fare domande. Tubercolosi ipotetica, scrisse in fondo al foglio, raccomandando assoluto riposo e suffumigi.
Tornato a casa, Eugenio non migliorava: passava le giornate a letto in preda agli attacchi di tosse.
Al diavolo le inalazioni! urlò Paola, e andarono al pronto soccorso.
La dottoressa decise di ricoverarlo. Paola era felice: una medica, donna, giovane e bionda. Una che ci sapeva fare, altro che il vecchio, bacucco e pelato. Per timore che fosse tubercolosi lo misero in isolamento.
La stanza si trovava dietro due tende di cellofan. Per entrare servivano: guanti, maschera, cuffietta, due bustine intorno alle scarpe, e un elastico giallo per chiudere il fiocco.
Meglio così, lo aveva rassicurato la moglie. Almeno, in stanza da solo, potrai dormire.
E se ne andò a casa col cuore alla gola.
Quando Paola si svegliò, al mattino dopo, trovò la casa in completo disordine. C’era polvere dappertutto, piatti da lavare, il letto disfatto. Non avevano nemmeno aperto le valigie. Iniziò a sistemare, ma più metteva le cose a posto, più le veniva da piangere. Ciapapuer! non poteva fare a meno di pensare. Lei, gli oggetti, li odiava. Li odiava più o meno tutti, ma in particolare quelli che non avevano alcun tipo di utilità: oggettini da collezione, statuette, vasetti; e soprattutto porta-candele, porta-fortuna, porta-cenere… ogni porta- era già una dichiarazione di guerra. Ciapapuer! Non poteva fare a meno di pensare.
A Eugenio, invece, quelle cosine piacevano molto, ma per non far imbestialire la moglie, si limitava discretamente a un souvenir ogni tanto. Gli piaceva più di ogni altra cosa entrare nelle botteghe dismesse, quelle dove pare che nessuno metta piede da un secolo. In quei posti sono gli oggetti a parlarti: ti attraggono loro, diceva, la polvere, gli oggetti, hanno sempre una storia…
Il suo pezzo forte erano le tazzine: dodici pezzi, ceramica a mano, ognuna d’un paese diverso. Ci aveva messo anni per completarla. Non erano rara bellezza, lo sapeva anche lui: erano sgraziose, datate, e lui stesso il caffè lo prendeva al bar. Ma tutte insieme facevano un gran figurone, e gli piaceva tirarle fuori per rimirarle e basta.
Proprio adesso Paola teneva la tazzina fra le mani. Si era messa a lavare i piatti, ma alla prima insaponata era rispuntata fuori la tazzina del Cairo.
Ciapapuer! Quanto le aveva odiate, quelle tazzine? Un accumulatore seriale, suo marito, inguaribile. Ne aveva prese dodici, dodici, pur di farla soffrire: e le tirava fuori, ogni volta, con le sue amiche. Come se non lo sapesse anche lui, che quelle, appena da sole, le ridevano dietro. Fossero almeno state graziose: dozzinali, cheap, senza gusto. Si morse le labbra, gettò la spugnetta e proruppe in un gran pianto.
Era andata a trovarlo il giorno dopo, e tutti quelli dopo ancora, per una settimana. L’ospedale era bello pulito: tutto bianco, anodino, nuovo. La luce nella stanza era diffusa dall’alto, coi led, e non c’erano ombre se non sotto i piedi. Non un grammo di polvere, da nessuna parte; non un quadro alla parete, non un oggetto da guardare.
Parlava coi medici, ma nessuno sapeva. Tubercolosi non sembrava. Aveva una polmonite grave, ma non si sapeva il perché. Quindi, nemmeno la cura.
Potrebbe essere un’allergia, aveva detto la medica, ma sono necessari esami ulteriori.
Poi una domenica, alla presenza degli altri parenti, Eugenio si addormentò. Era immobile, quasi sereno: un occhio semi-aperto, sembrava pensasse a qualcosa di complicato da decifrare.
Paola non riusciva a star ferma un momento. Aveva ripreso ad andare a lavoro, ma con la testa stava sempre con lui. Non si dava pace, più di tutto, di non sapere la causa del male.
Nemmeno a casa poteva rilassarsi. Dopo una settimana, facendosi forza, era riuscita finalmente a disfare anche la valigia del marito. Fra mutande sporche e maglioni impuzzoniti, il pacchetto di polietilene la fece inorridire. Ciapapuer! pensò immediatamente. Scartò il pacco: una specie di orcio, con beccuccio finale. Ottone acidato, appena duecento dinari, aveva detto il marito. Ma c’era anche quello strano beccuccio, e una sorta di tappo, con finiture in metallo. E poi a scuoterlo, faceva rumore… aaa… aaa… come qualcuno gemendo. Paola si spaventò e lo chiuse nell’armadio.
Il giorno dopo il marito s’era aggravato. Pareva una statua, o quasi una mummia. Talmente non si muoveva, che le parve di vedere un pulviscolo bianco, un accenno, su capo e cuffietta. Gli soffiò piano, sulla fronte, e gli parve pulito di nuovo. Lo segnalò, comunque, ai dottori: impolverato no, implorò quasi piangendo. S’assicurò che gli infermieri lo spolverassero ogni sera.
Passavano i giorni, e gli amici cominciavano a diradare le visite. Qualche messaggio arrivava: sii forte, diceva, o gufava.
Pur di non pensare al dolore, Paola oramai aveva messo in ordine tutta la casa. Ogni cosina era tornata al suo posto: era così veloce, ora, a spolverare le mensole! Nessun gingillo da spostare ogni volta, i ciapapuer erano tutti nascosti. Solo l’orcio mancava, non sapeva che farne: attendeva la sorte all’ingresso, vicino all’uscita.
Quando Eugenio spirò, l’agente le fece il favore:
venga pure a casa, le aveva detto, è tutto in ordine, tanto.
Il marito voleva esser cremato. La moglie, disperata, non ci poteva pensare.
Dove lo metto? non faceva che ripetere. Tutti in famiglia stavano al cimitero: sotto terra, ben messi, ordinati.
Le urne, signora, si usano le urne in questi casi, diceva consolatorio l’agente.
Un’urna, nuova di zecca, cremazione, cenere, funerale… quanto mi verrà a costare, pensava, odiandosi molto, per quei gretti pensieri. Ma lei di suo non aveva molto, o quasi niente a dir la verità: e prima della reversibilità del marito… insomma, il funerale qualcuno doveva pure pagarlo.
Quello mi pare perfetto, disse l’agente, non senza una certa soddisfazione. Il dito indicava l’ingresso.
Se non vuole comprarne una nuova, può usare anche quella. È orientale, un po’ eccentrica, ma funziona benissimo. Ottone acidato, mi pare. Potrebbe anche tenerlo a casa, se vuole, un oggetto così…
Paola cadde svenuta. Mentre l’agente, sconvolto, la rinfrescava, gli parve di sentire qualcosa:
cia…pu…, sembrava dicesse, o qualcosa del genere.
Pensò di domandarle: cosa, signora? mentre si riprendeva. Alla fine, però, lasciò perdere: non era nemmeno sicuro, in fondo, che avesse detto qualcosa.
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