Testo di Bianca Giacalone
Illustrazione di Federico Attardo
Avevamo portato con noi solo un piccolo asciugamano blu e nient’altro. La notte era prepotente e noi camminavamo sulla sabbia orientandoci solo con il rumore del mare. Poi il rumore si fece fortissimo ed eravamo in riva. Spogliarci e buttarci in acqua fu un attimo.
«Inizio a vedere il mare solo ora.»
«Vedere è una parola grossa. Dove sei stato?»
«In ospedale. Ho una specie di difetto al cuore. »
Poi mi lasciò lì. Lo sentii che si allontanava, a dare bracciate nel nero. Tornò e mi avvolse col suo corpo. Sentivo il battito del suo cuore difettoso e il suo respiro stanco, i capelli ricci bagnati, la mia bocca vicino al suo orecchio, l’onda lunga che ci trascinava via e ci riprendeva, ci separava ed eravamo soli, e poi di nuovo insieme sotto una cupola di stelle, pianeti e meteoriti che lasciavano la loro scia nel cielo. Ballavamo con la corrente.
«Esprimi un desiderio.»
Ma la scia era già sparita.
Senza dire niente tornammo in spiaggia e ci asciugammo uno alla volta con il telo. Poi ci spostammo dietro le dune, per ripararci dalla brezza che si faceva insistente. Lui stese il telo umido e ci sdraiammo sopra. Pelle contro pelle.
Avrei voluto baciarlo, avrei voluto prendergli le mani, la testa, ma sentivo che lui era una cosa unica, intoccabile, come un pianeta, che faceva parte di tutto quel movimento là sopra, come se fosse fatto di roccia antica e dura, meteorite incandescente. Fu poi lui a muoversi verso di me.
Dopo sistemammo di nuovo l’asciugamano e ci togliemmo un po’ di sabbia, senza dire nemmeno una parola. Sdraiata, poi, con le mani sulla pancia, guardavo il cielo e pensavo. Pensavo a questa cosa di essere umani, di sentire il peso della forza di gravità e della pelle attaccata agli organi e allo scheletro, sentivo le mie costole nude come quelle delle mucche al macello e pensavo che siamo pezzi di carne sdraiati sulla sabbia ad ascoltare il respiro del mare da dietro le dune che batte lento come un tamburo, come i nostri cuori di animali spaventati e inermi davanti alla notte, al cosmo, alle stelle cadenti, ad avere orgasmi per sentirci meno sperduti, a cercare di capire qual è la direzione dove siamo rivolti. Ma non gli dissi nulla di tutto questo.
«Quello è il piccolo carro.»
«E quello è il nord.»
«Siamo nella direzione sbagliata.»
I nostri piedi puntavano più a sinistra. Ci rivestimmo, distanti, con lentezza. Il mio vestito bianco essenziale e morbido mi sembrava inutile da indossare sopra la pelle. Alle nostre spalle il vento muoveva gli arbusti marini e lontano sentivamo le macchine che andavano lente sui dossi in strada.
Camminavamo verso la macchina, sapevo che mi stava guardando, ma era così buio che non avevamo la faccia.
«Dove andiamo ora?»
Ma era inutile chiederglielo, aveva già messo in moto e capivo dal suo sguardo che aveva una direzione ben precisa.
Guidava ma non era attento, lo vedevo, aveva gli occhi leggermente offuscati. Il suo alito sapeva leggermente di alcool ed era caldo.
«Quando ero depresso venivo qui.»
«Non sono mai stata in questo posto.»
«Di giorno è una valle molto bella.»
«Sì, riesco a vedere qualcosa.»
«Una volta ho trovato una casa diroccata e a fianco un albero bellissimo.»
Silenzio.
«E ho deciso che in quell’albero mi sarei impiccato.»
«Anche io ho questi pensieri, delle volte.»
«Il giorno dopo sono tornato, l’avevano abbattuto.»
«Un segno del destino.»
«Sì.»
«Se penso al suicidio, penso sempre di fare un volo dal balcone.»
«Mmh, non è che sia molto elegante. È più elegante annegare.»
«Che morte orribile.»
«Sì, ma è bella. Come bruciare.»
«Anche il veleno è elegante. Ti ferma il cuore.»
«O tagliarsi le vene in vasca.»
«Una volta ho preso un coltello da cucina e me lo sono puntato dritto al cuore.»
Ma lui non mi ascoltava più, aveva premuto il piede sull’acceleratore, le mani appoggiate alle cosce. Andavamo dritti nella valle, il suo cuore difettoso, il mio ordinario, in mezzo al nulla.
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