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Racconti | Cuore di Coniglio



 

Testo di Caterina Villa

Illustrazione di Gabriele Merlino

 


Schiaccio l’orecchio contro il parquet e trattengo il fiato. Da qui vedo sotto il divano, c’è un batuffolo di polvere appena dietro la gamba anteriore destra. Quando arriva Virginia mi sente, le dico sempre di passare l’aspirapolvere almeno due volte. Questa città è piena di polvere. Per questo motivo stiamo senza scarpe in casa, io e Virginia. Lo facevamo anche io e te prima, anche se non ti piaceva stare in calzini, non ti piaceva nemmeno vedere i miei piedi nudi. Ora li tengo puntati contro il pavimento mentre ascolto. Mi sono fatta mettere lo smalto rosso dall’estetista, la faccio venire qui a casa adesso che non esco più. Ecco, quelli del piano di sotto si sono spostati, lo fanno sempre a un certo punto. Lei non si sente mai, però, solo lui. “Non dovevi farlo”, dice, “cosa faccio adesso. Non lo capisci”. Tu non alzavi mai la voce così, eri un signore.


“Signora, tutto bene?”


D’istinto chiudo gli occhi, faccio come la vecchia gatta che viveva a casa quando ero bambina; era grassa e nera, ma si ostinava a nascondersi dietro le tende, convinta che noi non potessimo vederla.


“È caduta, signora?”. Apro gli occhi, i calzini di spugna di Virginia riempiono la mia visuale.


“No. C’è della polvere sotto il divano”. Mi alzo senza guardarla. Vado dritta verso la terrazza. La sento che sbuffa, ma adesso ho bisogno di aria - che pensi a fare il suo lavoro piuttosto. La terrazza è stretta e lunga e lì nell’angolo c’è ancora quella palma che ti piaceva tanto; l’ho tenuta - hai visto - anche se non la sopporto. Quassù nessuno mi può vedere dalla strada, ma io vedo tutto. Solo così mi è sopportabile guardare questa città, senza contatto con l’asfalto, con la patina incrostata sui cassonetti, con i barattoli di pelati svuotati e lasciati lì a raccogliere monetine.

Per strada a quest’ora vanno tutti di fretta, si sorpassano, si sfiorano, si infilano nei portoni di questi palazzi alti e moderni e ricoperti di vetro. Gli alberi del viale quassù non arrivano e così vedo anche i tetti dall’altro lato della strada. Nel palazzo qui di fronte qualcuno ha ripreso quell’orrenda abitudine di stendere i panni sul terrazzo condominiale. All’inizio Virginia voleva stendere i panni qui sul balcone, ma gliene ho dette come si deve. C’è la lavanderia con l’asciugatrice, oppure il bagno di servizio, tanto non lo uso più, non mi piace ricevere gente in casa, figurarsi lasciar loro usare uno dei miei bagni.


Il cane che hanno preso a tenere davanti alla filiale della banca qui sotto abbaia come un ossesso, dovrebbe badare che nessuno entri armato o con una bomba nello zaino, ma sembra più interessato alla barboncina che sta passando. Poco più in là due ragazze mangiano pizza da un cartone sedute sui gradini della chiesa. Il parroco avrà pensato che sono morta stecchita visto che non la frequento. La messa me la guardo in televisione, in vestaglia, perché la domenica è l’unico giorno che non viene Virginia e allora non ho bisogno di vestirmi. Sto sul divano, bevo caffè e guardo il papa che parla col volume al minimo ché il rimbombo di San Pietro mi dà ai nervi. In fondo alla scalinata della chiesa c’è quella statua che ti angosciava, quella madonna col mantello gonfio che a me ricorda una vagina - ecco l’ho detto - e sotto il mantello i soldati tutti ginocchia e gomiti. Hanno i visi spauriti. Quando ci passavamo vicini mi tiravi via, la tua mano grossa intorno al mio polso piccolo. Ecco, adesso un uomo se ne sta fermo lì davanti, guarda la madonna immagino, o forse i soldati o tutti e due. Allunga una mano, la posa su un gomito di metallo. Dagli alberi qui davanti arriva un trillo furibondo, uno dei pappagalli che li hanno colonizzati deve essersi arrabbiato. Il respiro mi viene su troppo veloce, come quello di un gatto, o peggio, di un coniglio. Non ne prendo uno in braccio da tantissimo tempo ma ricordo la velocità del loro battito, come se stessero sempre lì lì per morire di crepacuore. Ecco forse è andata così: te ne sei andato e mi hanno sostituito il cuore in petto e adesso vivo con un cuore di coniglio. L’uomo ritira la mano, fa per voltarsi. Poso le mani sulla ringhiera, le sento che si impastano di smog, strizzo gli occhi.


“Signoraaaa”.


Oltre la vetrata Virginia mi fa segno di entrare. Di sotto davanti alla statua è rimasto il marciapiede vuoto, il riflesso lucido di una chiazza di pipì di cane. Virginia indica l’altra stanza, “c’è suo figlio al telefono”, dice. Penso che non ho voglia di parlare con Mario, dico grazie. Il telefono è sempre lì, dove lo avevi voluto tu, su quel tavolo alto e stretto, scomodissimo. “Mamma come stai”, chiede Mario, e sotto c’è un gran rumore nemmeno fosse seduto su un trattore. “Scusa, stanno tagliando le siepi in giardino”, urla. “Quando vieni”, chiede. “Non lo so”, dico. Ho appeso un nuovo quadro sopra il telefono, un pannello di legno in verità, con su dipinte delle felci. Guardo le foglie, su una di esse il pittore ha dipinto un grosso insetto nero, lucido. “Manuela dice che le fa piacere se passi a trovarci”. Il legno emana un odore strano, come di spezie. Anche Manuela usa profumi così, patchouli e sandalo e acque di qui e di lì. E non mi far pensare a come si era vestita al tuo funerale! “Ma’ ora devo andare, ciao”. Rimetto giù il telefono.

Quando torno di là Virginia sta spolverando il tavolinetto. Non mi piacciono le sue dita corte e scure sulle mie cose, ma mi piace che non sta mai zitta, canticchia, parla tra sé e sé. Quando è qui impedisce al silenzio di mangiarmi il cuore. Solleva lo sguardo, la vedo che non sa se parlare o meno, poi chiede: “tutto bene?”.


“Come sempre”, dico invece.


“Mario chiama spesso”. Si raddrizza un po’, lo straccio che le pende dalla mano sinistra.


“Chiama ma non dice niente”.


“Non va bene. Perché non gli dice quello che pensa?”.


“Ma no, va bene così”, dico e mi guardo le unghie rosse contro il tappeto color panna.


“Le preparò un tè?”.


Annuisco e la seguo. So che la agita avermi intorno, ma la pago e mi sembra poca cosa da sopportare. Resto in piedi appoggiata al frigorifero mentre lei tira fuori il bricco, accende il gas.


“Non sta più comoda di là, signora?”, domanda dandomi le spalle.


Io guardo la calamita a forma di sombrero che ci riportò Mario dal viaggio di nozze. “No, sto bene qui”. Ed è vero. Questa è la stanza più piccola della casa e a starci dentro in due sembra ancora più piccola, mi rallenta il sangue.

Mentre l’acqua si scalda, Virginia fa finta di mettere in ordine i barattoli di spezie che ci hanno regalato e che non uso mai.


“Come sta tuo nipote?”, chiedo.


Lei gira un ultimo barattolino di vetro. “Sta bene, grazie a Dio. Lo dimettono domani”.


“Bene. Fammi sapere se serve che chiami io”. Sono ancora buoni tutti i tuoi contatti, almeno quelli che non sono morti. Che poi ho pure provato a chiamarne qualcuno, dei numeri dei morti, dico. Non tutti li staccano subito, sai? Restano attivi per un poco di tempo, come quello del tuo amico, l’ingegner Pascali. Io il tuo di numero l’ho disattivato subito, invece.


“Grazie, signora. Anche da parte di mia figlia”.


“Non è niente”, rispondo. Mi viene voglia di staccare la calamita e infilarla in un cassetto, ma l’acqua sta bollendo.





“Prendo io le tazze. Tu pensa alla teiera”. Di tazze ne prendo due, anche se so bene che non vorrà sedersi con me, farò la scenetta, e poi starò lì a bere il tè con la tazza vuota sul tavolino. Prendo quelle del servizio che piace a me; il tuo l’ho fatto imballare da Virginia come prima cosa quando è arrivata, pagine di giornale, scotch, una scatola che ha recuperato al discount due vie più giù. Mi faceva paura l’idea di poter mettere la bocca nel punto preciso in cui l’avevi messa tu senza saperlo.

Virginia posa la teiera sul tavolo, poi guarda le tazze. “Vado di là a pulire il bagno”, dice. “Vai pure”, le rispondo. Il tè mi ustiona la lingua.


Non ho bisogno di guardare la sveglia per sapere che è il bel mezzo della notte. A un certo punto mi scatta qualcosa dentro e mi tira via dal sonno. Scendo dal letto, vado in salotto, mi stendo sul pavimento. All’inizio sento solo una specie di riverbero, come quello che si acquatta dentro le conchiglie. Chiudo gli occhi, mi concentro e attraverso il legno e il cemento e i cavi elettrici sale la sua voce. “Perché non mi lasci libero, Teresa”, dice, e lo sento che sbatte qualcosa, forse apre e chiude degli armadi. “Stai lì che mi strisci dietro, così non ce la faccio”. Mi passo la lingua sui denti. Qualcosa che stride, poi un tonfo. “Ecco, li metto tutti qui dentro questi maledetti vestiti. Avrei dovuto dar retta ad Angela e farlo subito, ma no, pensavo di essere forte abbastanza, dio mio che stupido”. Vorrei potergli dire attraverso il pavimento che no, non è stupido. Che si pensa sempre di essere forti abbastanza, l’ho pensato anche io, quando mi hanno chiesto di scegliere un vestito per te e poi la foto e i fiori. Ma poi sono tornata a casa ed eravamo soli, io e questo mio cuore da coniglio. “Ecco chiudo tutto e domani li porto alla chiesa qui dietro, appena apre, che sennò ci ripenso, almeno serviranno a qualcuno. Mi fanno uscire di testa. Mi fa impazzire che il tuo corpo non riempirà più niente, nemmeno la bara, Teresa, ché ormai sarai un mucchietto di ossa”.

Premo il lato destro della faccia contro il legno. Penso ai tuoi vestiti ancora nell’armadio. Un ultimo tonfo poi niente. Forse si è messo a letto. Resto sdraiata a terra, le giunture che mi si fanno rigide, mi si riempiono di silenzio.


La chiesa apre alle otto per la prima messa. Lo so perché ci andavi spesso e provavi a buttar giù dal letto anche me. Tiro su un bel respiro, spingo la maniglia. Le mattonelle sono molto più chiare di quel che ricordavo, bianche e lucide mi fanno venire in mente la panna cotta. Non la mangio da anni ma adesso ho il sapore in bocca, quel peso un po’ viscido sulla lingua. Ho messo le scarpe da ginnastica, non i tacchi che mettevo un tempo, così non faccio rumore mentre attraverso il pianerottolo. La pulsantiera dell’ascensore l’hanno cambiata, non ti sarebbe piaciuta, un po’ pacchiana. Pigio il pulsante. Lo scatto dei freni che si sganciano risuona da qualche parte sopra la mia testa, ogni volta mi mette un tremito in corpo. Mi sono immaginata spesso di precipitare, schiacciata dalla lamiera e dal vetro. Non te l’ho mai detto. L’ascensore arriva, entro, mi giro e guardo la porta di casa. Dietro ci sono le nostre cose, la tua palma sul balcone, la polvere.

Pigio la lettera T. Le porte si chiudono e l’ascensore inizia a scendere. Non riesco a immaginarmi l’atrio e le cassette della posta e il marciapiede fuori.

Il mio cuore di coniglio sta per esplodere. Le porte si aprono. Esco.


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