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Racconti | Diastema





 

testo di Chiara Checchini illustrazione di Alice Gualandi editing a cura di Sofia Artuso e Lorenzo Vercesi


 









Verità e tenerezza sono le colonne portanti delle relazioni, siano esse d'amicizia o d'amore, sostiene Emerson. Ma quando la verità di per sé stessa non è tenera, individuare il modo giusto di agire non è impresa banale. Ci si ritrova dilaniati tra due opposte tensioni, costretti a soppesare da un lato la fiducia in noi riposta, che tutt’a un tratto si fa gravosa, e dall'altro la frustrazione della responsabilità  la consapevolezza di essere causa di sofferenza è estremamente frenante.

Di fatto, compiendo un’azione moralmente giusta, si può infliggere molto dolore alle persone amate. E questo è uno dei paradossi, delle ambiguità insite nella vita stessa degli esseri umani, intricata e irta di complessità.


Alzo gli occhi dal libro e trattengo il fiato. Eccolo, finalmente. Un pianoro blu su cui poggia l'azzurro del cielo. Che bello il Tirreno, che presenza scenica, che colore profondo.Chiudo il manuale, ormai è inutile incaponirmi, ho la testa altrove. Il treno fila rapido lambendo la costa, scompare nel ventre dei promontori, costeggia terre di nessuno. Poi rallenta, per addentrarsi negli abitati. E di nuovo parte.

Fotogrammi di campagna, più o meno concitati, mi scorrono davanti. Mi appoggio allo schienale e mi immagino il weekend, il sole spietato che fa sfrigolare la pelle unta di crema solare, il vento che alza la sabbia bollente, il sale che incrosta il viso. E poi la sera nel giardino buio, sotto i pini. Il vino rosso nelle fiasche, le canne che passano di mano in mano, le vibrazioni della chitarra.

 

Alla stazione, con mio grande dispetto trovo Christian ad accogliermi.

«Mi dicono che non batti chiodo, eh? Tranquilla, ci penso io!»

«Passano gli anni ma il repertorio di battute resta sempre lo stesso», sospiro.

Christian ghigna, sembra un fauno, e io resto per qualche secondo di troppo a fissare lo spazio tra i suoi incisivi – dicono che chi ha questa particolare conformazione fisica sia affetto da incontinenza sessuale. 


Ci mettiamo in macchina e poco dopo deviamo su una sterrata, nel bel mezzo di una pineta. Non c’è anima viva e la vista sulla baia sottostante è un incanto.

«Qui ci portavo le ragazze. Me la davano tutte, era la mia tattica infallibile», si vanta. «Questo prima di incontrare Margherita, naturalmente.»

«Naturalmente», gli faccio il verso. Fisso le sue dita tozze, strette intorno al volante. La fede si vede appena, infossata nell’anulare peloso.


Con uno scatto abbassa il mio sedile e mi ritrovo sdraiata. Si sgancia la cintura di sicurezza e fa per salirmi sopra. Sento il suo alito sul collo e mi paralizzo. Poi inizio a ridere, in modo sguaiato. «Christian, dai! Mi fai morire. Ho le lacrime». Forzo la risata. «Stai sempre a scherzare!»

Lui si blocca per qualche istante e poi torna al posto di guida.

Con la mano tremante rovisto finché non trovo la leva e raddrizzo il sedile. Respiro. 

Non sono mai stata così cosciente di avere un cuore che batte. Non ho mai percepito in modo così netto i battiti del mio cuore. Violenti. 

«Sto morendo di fame! Che ore sono? Margherita ci sta aspettando per pranzo?», lo incalzo cercando di controllare il tremolio della voce.

Christian, senza dire una parola e senza guardarmi, rimette in moto.

 “Perché? Che cosa ho fatto di male?” penso. Il disagio non mi stacca di dosso.

«Allora, da quanto tempo non trombi?» riattacca non appena ci immettiamo sulla statale.

Sospiro.

«Sei venuta nel posto giusto! Ti trovo io un bel puledro che…»

«Come sta tuo figlio?»

«Bene, cresce. Ormai ha otto anni. Un po’ troppo piccolo per te…»

Non commento nemmeno, continuo a guardare fuori dal finestrino.

«Lo vedo questo weekend.»


Appena l’auto si ferma nel piazzale mi precipito fuori. L’odore dell’Arbre magique tropicale misto alle note amare del deodorante di Christian mi ha fatto venire la nausea. Le cicale cantano ispirate sotto i pini marittimi, che fanno ombra alle ville più antiche del paese.

A grandi falcate raggiungo il cancelletto della vecchia casa. Sento un vociare in giardino e mi precipito sul retro, dove trovo una lunga tavolata. Saluto tutti, anche se non sono particolarmente contenta di rivedere nessuno.

Margherita si alza, mi viene incontro.

«Ben arrivata!» mi abbraccia con un trasporto che non mi aspettavo.

Mi costringo a sorriderle.

«Ce ne avete messo di tempo ad arrivare!» rimprovera il marito.

«Abbiamo deviato per il punto panoramico, Laura voleva vedere il mare.»

Mi mordo il labbro e non dico niente. Poi però ci ripenso. «In realtà avevo una gran fame, ha insistito lui.»

«Sai com’è fatto, l’ospitalità prima di tutto! E poi Chris ti adora. Tra tutte le mie amiche sei la sua preferita.»

Christian gongola e abbraccia la sua donna, che lo sovrasta di una spanna.

«La mia Margherita, domata da un purosangue», dice con gli occhi che scintillano.

«In realtà sono io che ho domato te», puntualizza lei.

Trattengo un conato.


«Vado un attimo in bagno», dico impaziente di levarmelo di torno.

«Chris, le mostri la stanza?» dice Margherita.

«Non ti disturbare. Al piano terra, come al solito?» intervengo io.

«Sì, sempre quella.»

Mi sento braccata. Christian non mi molla, mi segue, insiste per portarmi lo zaino. 

«Madame, la tua camera. Magari questa notte a una certa ora vengo a trovarti...», sorride malizioso e scopre i denti. 

«Magari no.» Lo spingo fuori.

«Si scherza, eh», non sorride più.

«Certo, si scherza sempre», mi chiudo la porta alle spalle. L’odore di naftalina è così intenso da dare il capogiro. 

“Ancora tre giorni, tre interminabili giorni.” Mi lascio cadere sul letto. Lui lo sa che non le farei mai del male. Lo sa bene. Conta sul mio silenzio, abbiamo un tacito patto. L’impotenza mi schiaccia, mi strizza lo stomaco. Lacrime scure colano per le guance. 





Illustrazione originale di Alice Gualandi ©




Margherita mi ha tenuto il posto a tavola accanto al suo.

«Non sai quanto mi manca la città! E le nostre serate di Mojito e chiacchiere. Non fosse per Christian non mi sarei mai trasferita, qui in provincia è una noia mortale. Pure al lavoro, le ore non passano mai!»

Ho così paura che mi possa leggere i pensieri che li censuro sul nascere.


Mi forzo a finire il piatto di insalata di riso e poi mi accendo una sigaretta. Christian non si vede, non voglio chiedere dove sia finito, ma ovunque si trovi spero ci rimanga a lungo.

«Come sono andati questi primi sei mesi da marito e moglie?», chiedo a Margherita, posandole la mano sul braccio. Ha messo su ancora peso, il seno prosperoso deforma e dilata le righe della maglia troppo stretta.

«Bene! Potevi anche farmi una telefonata, dopo il matrimonio sei sparita!»

«Hai ragione. Volevo lasciarvi un po’ di privacy», mento.

«Non importa. È bello che tu sia qui!» mi prende la mano. Le guance arrossate dal vino sono tonde e piene come quelle di una bambina.

«Sei felice?» le chiedo a mezza voce.


Ripenso al loro grigio banchetto nuziale – il ristorante sulla spiaggia deserta, la grande vetrata imperlata di pioggia, i colori smunti del mare d’inverno – e una grande tristezza mi attanaglia ancora.

Mi torna in mente la divisione in fazioni, i parenti snob di Margherita che guardano dall’alto in basso quelli pop di Christian mentre una perplessità diffusa offusca la pretesa gioia del grande giorno.

«Sono felice», mi risponde. Non sta mentendo.

«Bene.» Inorridisco per la mia ipocrisia e mi alzo, inizio a sparecchiare.



Accompagno Margherita in un negozio in centro e mi siedo fuori dai camerini ad aspettarla. Strizzata nell’ennesima maglia a righe, lei sfila compiaciuta nel corridoio, attirando gli sguardi dei presenti.

Dalla tendina lasciata impudentemente aperta la vedo litigare con un paio di pantaloni che vuole infilare a tutti i costi. Si divincola, geme, strattona e alla fine ce la fa. Le cosce sono compresse come insaccati ma manca ancora un passaggio. Afferra la zip, avvicina i due lembi di tessuto e tira. Tira finché la cerniera non cede, restandole in mano.

Le due ragazzine nei camerini vicini scoppiano a ridere e io rivolgo lo sguardo altrove.

Margherita schiocca la lingua. «La qualità di questo marchio lascia molto a desiderare».

«Ti porto un altro paio di pantaloni? Che taglia hai preso? 46?», le chiedo.

«46? Io porto la 42.»

«Certo, scusa», ribatto rapida.

«Pensavo 48», dice una voce alle mie spalle.

«Vado molto fiera della mia sexy forma da bottiglietta della Coca Cola, ma non è facile trovare vestiti che mi vadano bene», mi confida Margherita impassibile. 

Poco dopo esce dal camerino e ancheggia fino al grande specchio. Si guarda, liscia il cortissimo abitino beige, lo sistema sui fianchi. Sorride al suo riflesso.

Sorrido anche io. Penso al capolavoro di roccaforte a tenuta stagna in cui si è trincerata per non affrontare la crudele realtà e non so se invidiarla o compatirla.


La vecchia maniglia in ottone si abbassa e si rialza più volte davanti ai miei occhi sbarrati. La porta è chiusa a chiave ma istintivamente mi stringo nell’accappatoio. Mi dilungo di proposito. Appena esco Christian mi branca e mi spinge contro il muro. Mi prende alla sprovvista. 

«Margherita è a lezione di tennis, abbiamo un’ora», mormora.

Il contatto con il suo corpo mi disgusta. 

«So che mi vuoi», ansima avvicinandosi al mio volto. In preda all’orrore chiudo la bocca e sento la sua lingua vischiosa sulle labbra. Sguscio via, lo spingo con forza e mi chiudo in camera. Tremo e continuo a strofinarmi il dorso della mano sulle labbra per ripulirmi, cancellare ogni traccia di quello schifo. Cammino avanti e indietro, avanti e indietro. Ho bisogno di urlare, un bisogno incontenibile. Il mio sguardo si ferma sul telefono. “Mi dispiace Margherita, ma non riesco più a sopportarlo.”


Tuo marito mi sta molestando. Puoi tornare per favore?, scrivo a Margherita.

Ah ah ah! I suoi soliti scherzi pesanti. Alle 7 sono lì.


Non tocco cibo e passo la cena in silenzio, attonita. Stizzita per la mia ingenuità, scottata dallo smacco.

Margherita si accorge che qualcosa non va, sgrida il marito. «Devi andarci piano con la Lauretta, non è abituata al tuo umorismo greve. Non vedi come ci è rimasta male?»

Mi nascondo dietro di lei, senza osare guardarlo, senza dire nulla.

«Nemmeno una battuta si può fare», dice lui con aria innocente.


Il richiamo dell’imperdibile serata anni ’80 in discoteca fa presa sul solito gruppo di amici – tutti amici di Christian, a dire il vero. Io mi lascio trascinare. La rabbia sta montando e mi ribolle tutto dentro.


Christian è su di giri, ha confabulato a lungo con il tizio losco che staziona accanto al bagno. Ha preso qualcosa, si capisce da come si muove, e ci sta bevendo sopra fiumi d’alcol. Ride in modo sfrenato mettendo in mostra la fessura tra i denti. 

Nel locale terrazzato ci sono diverse sale, passiamo da una all’altra in cerca della musica migliore, e a un certo punto perdo il gruppo. Christian ne approfitta, mi afferra da dietro e si struscia. Sento l’erezione e le sue mani che mi tengono ferme le spalle. «Adesso basta!» Mi divincolo, mi giro e gli tiro una ginocchiata. Si piega in due.

«Fallo ancora e vado a dire tutto a tua moglie!» gli grandino addosso, sovrastando Mamma mia degli Abba. Corro in bagno e vomito.

“È colpa mia? L’ho provocato?” mi chiedo tra i conati.



I grilli non hanno ancora smesso di cantare quando salgo in macchina con Margherita. Con i finestrini abbassati per non sentire l’odore nauseante del deodorante tropicale attraversiamo il paese addormentato senza dirci una parola. Non vuole lasciarmi davanti alla stazione, insiste per accompagnarmi al binario.

«Mi spiace davvero tanto per tua mamma, spero si rimetta in fretta. Alla sua età una frattura al femore non è cosa da poco.»

Annuisco a occhi bassi, vergognandomi della scusa raffazzonata che ho inventato.

«Ti aspettiamo per il compleanno di Christian! Lui ci tiene tanto», si raccomanda Margherita. 

La stringo forte. Mi reggo a stento in piedi, non ho chiuso occhio e lei sembra così solida.

«Certo, contaci!» le mento ancora. Sorrido, cercando di camuffare la mia pena.

“La verità è che io non ho fatto niente, ma proprio niente”, vorrei dirle.


Prima di salire sulla carrozza rimango un attimo a guardarla.

Forse un giorno inizierà a capire da sola. A scoprire indizi. A notare contraddizioni. Non sarò io quella che le inietterà il sospetto, che sbriciolerà il suo equilibrio, che manderà all'aria i suoi sogni. Né tanto meno la sua vita. No, non io.


Affondata nel sedile, il manuale chiuso sul tavolino, aspetto il mare per chiudere gli occhi.

Eccolo. Denso, materico, color lapislazzuli. So che non lo rivedrò tanto presto. Rimango a guardarlo finché il treno non cambia rotta e si addentra lentamente nella campagna.







 

Nota biografica


Chiara Checchini nasce nel 1980 a Milano, dove attualmente vive dopo qualche divagazione. Detesta le bio, i cliché e i cibi pronti tanto quanto adora le matinée al cinema, le pagine bianche e l’odore della pioggia nel bosco.

Anacronisticamente fiera della sua formazione tutta umanistica, negli ultimi tempi frequenta corsi di scrittura creativa per meglio comprendere gli affascinanti meccanismi che governano la narrazione.

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