Testo di: Miriam Palombi Illustrazione: generata da una IA da stralci di testo Editing a cura di: Laura Scaramozzino
*
Si può ridere di maschere di mostri
e di schizzi di sangue,
ma in quegli specchi deformanti
riusciamo a vedere qualcosa che ci appartiene,
proiettati nella seduttiva possibilità di scoprire
il volto sconosciuto del nostro doppio…
Gianfranco Nerozzi
In Fondo al Nero
Cercò di aprire gli occhi e il tempo le restò intrappolato fra le ciglia.
In principio non udì alcun suono, poi percepì il lento ronzio del sangue pulsargli nelle tempie. Il corpo non rispondeva agli stimoli elettrici del cervello in avaria; i muscoli, le articolazioni e le terminazioni nervose forse erano recisi.
Non ho più un corpo, si disse. Inflorescenze esplodevano dietro le palpebre.
Riuscì ad aprire gli occhi.
Il grigiore impersonale lambiva la stanza. Un ambiente opprimente, immerso nella penombra in cui scorgeva, a malapena, il confine delle pareti.
Il suo corpo si destò. Uno spasmo violento, uno strappo pari a una nuova nascita. Una smorfia gli increspò l’angolo destro della bocca, il labbro si sollevò crepitando e il sangue si disciolse nella saliva.
Un conato gli rimescolò le viscere e un bolo acido gli risalì in gola, mischiandosi al sangue e alla saliva.
Tentò di muoversi, sotto di sé percepì il groviglio di un letto sfatto; la stoffa intrisa di vomito, lo stava quasi soffocando.
Con fatica, riuscì a mettersi seduto. I piedi ciondolarono dal letto, prima di toccare il pavimento. Il freddo pungente gli confermava che fosse vivo.
Aspettò che il cuore pompasse sangue e, molto lentamente, si sollevò sugli arti malfermi. Un piede dopo l’altro.
Si guardò attorno. Nessuna fotografia appesa alle pareti. Nessun oggetto personale. La stanza di un motel.
Si sforzò di ricordare, ma la sera appena trascorsa era un sapore lontano sulla lingua.
C’era disordine, bottiglie vuote e bicchieri con del liquido ambrato sul fondo. Mozziconi di sigaretta affollavano un posacenere, alcuni erano della marca che fumava di solito. L’odore caliginoso della nicotina impregnava l’aria. Al di sotto, persisteva un aroma acre che gli ricordò l’ammoniaca.
Impulsi di luce bianca gli esplosero nel cervello. I ricordi riaffiorarono sotto forma di brevi immagini, all’apparenza scollegate.
La musica diffusa ad alto volume gli turbinava in testa.
La luce scendeva dall’alto, come pioggia. Il ghiaccio nel bicchiere emanava uno scintillio metallico.
Un misto di colonia a buon mercato e sudore.
I ricordi sconnessi si fermavano lì, poi tutto precipitava in un buco nero.
Si voltò piano, una lama di luce tagliava la penombra e un pulviscolo sottile vi roteava in mezzo. Un dolore lieve, ma continuo, pulsava alla base del collo.
A terra c’erano i suoi vestiti, tolti in fretta come la muta di un serpente.
Rimase in piedi. Il corpo nudo, alto e snello, era riflesso nello specchio appeso alla parete. Fu allora che intravide un movimento che mutò l’immagine restituita dalla superficie serica.
La pelle gli pizzicò per la paura.
L’immagine di tenebra riflessa si mosse e si sdoppiò. La grottesca maschera da uomo gli sorrise.
Conosceva quel volto. La prima volta aveva colto una vaga somiglianza: la frangia tirata da un lato, lucida della saliva di sua madre che con quel gesto intimo e profondo mondava via ogni peccato. L’arco delle labbra, così aguzzo, sembrava una ferita rimarginata male.
Nel tempo, il corpo e i lineamenti erano mutati. Cresciuti. La mascella aveva preso una piega dura, e sulla fronte era apparsa la stessa cicatrice a stella. Erano diventati più somiglianti. Lui, sé stesso, e la presenza che soggiaceva in fondo allo specchio.
Parole iniziarono a girare nella testa; era la voce di sua madre che sussurrava di appartenenza e dedizione. Di quanto il suo amore fosse incommensurabile. Si ricordò che, a nove anni, lo aveva sollevato da terra, cercando di aprirgli il palmo stretto a pugno. Alla fine c’era riuscita, svelando una ciocca di capelli chiari strappati alle radici. Aveva tentato di giustificarsi, spiegare che voleva solo sfiorare quella bionda marea in movimento, ma poi la bambina si era messa a urlare. L’unico modo per farla tacere era stato afferrarle il capo, e sbatterlo forte al suolo. Dopo la confessione, sua madre lo aveva osservato con indulgenza. La mano ossuta si era mossa a cercare la tana umida della bocca. Le dita madide di saliva erano risalite verso la frangia spettinata. Un battesimo pagano.
Si premette i palmi contro gli occhi. L’oscurità cresceva e spingeva dietro le palpebre.
Immagine generata a partire da stralci di testo con: https://www.canva.com/it_it/generatore-immagini-ai/
Il doppio si mosse di nuovo. Un indice si avvicinò al confine dello specchio e gli indicò un punto alle spalle.
Da quella prospettiva, il letto si intravedeva appena; le lenzuola delineavano una terra sconosciuta, però familiare.
La musica ad alto volume. La luce che scendeva dall’alto. Una schiena imperlata di sudore. Labbra che si schiudevano. La lingua che si moveva sugli incisivi.
Parole sussurrate all’orecchio, più forti delle fitte alla base del collo.
I ricordi divennero ombre raggrumate, coaguli densi. Si conficcò le unghie nel palmo, nessun dolore lo strappò al rigurgito acido che bruciava il naso e la gola.
Sotto le lenzuola c’era un torso umano, attaccato a un bacino tornito, e poi braccia e gambe, e dita. Una testa. Dei capelli. Un intero corpo derelitto.
Si avvicinò e sollevò il sudario. I piedi lividi e magri. La pelle aveva la stessa opaca sfumatura del piombo, e conservava un’eco cruenta.
La creatura nello specchio gli rivolse un sorriso sfocato, bianco come ossa.
Dopo la prima volta, in cui gli era apparso da bambino, ce ne erano state molte altre. Il doppio lo fissava con uno sguardo bestiale; gli occhi, compassionevoli, erano due bilie in cui sciabordava un liquido nero.
Ora, non si limitava a sorridere. Il doppio iniziò a colpire lo specchio, la lastra vibrò e il riverbero gli si propagò nei denti. Cercò di protestare, ma la voce rimase imprigionata in echi bizzarri in fondo alla gola.
I colpi continuarono con la cadenza di un cuore tachicardico, fin quando lo specchio iniziò a fendersi. Un reticolo di crepe sottili corse lungo la superficie.
Lame invisibili gli sfiorarono la nuca.
La prima ferita si schiuse alla base dell’inguine, sotto l’ombelico. Le altre gli si aprirono sul torace e sulle braccia come asole nella carne. La più profonda creò un solco dalla guancia sinistra, fino all’attaccatura dell’orecchio destro.
Ebbe un ultimo guizzo di ribellione, poi e le sue pupille non poterono più sottrarsi all’arabesco di fenditure che correva sullo specchio, in ogni direzione. C’era un codice da decifrare, in quei segni, un messaggio nascosto. Un’indicazione che lo avrebbe condotto da qualche parte. Ne era certo.
Con un boato, lo specchio andò in frantumi. La luce si attenuò, lasciandolo immerso nella semi oscurità.
La bocca di quell’io speculare si ripiegò in un sorriso di compiacimento. Nessuna saliva di madre avrebbe mai potuto nettare tutte le sue colpe.
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