Testo di: Cesare Sinatti
Illustrazione di: Stefano Porro (Pedro)
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Mettiamola così: se mai l’impennata sensoriale di un’anamnesi dovesse, in un momento di debolezza dovuto all’effusione di un odore sintetico di fast food, guidarmi a rievocare un ricordo di mio fratello e di come, alla fine o all’inizio delle sue giornate da studente di lettere a Bologna, si ritrovasse a volte a leggere Proust intorno alle cinque del mattino circondato proprio da quello stesso odore, sintetico, di fast food, dentro il McDonald’s di piazza Otto Agosto, con addosso una camicia con ricami di libellule che puzza di sigaretta, sudore e gomma bruciata, odori che sono per lui tuttora gli odori di Proust, gli odori di uno che cerca il tempo perduto, appunto, dietro a discussioni come quelle che precedevano le sue fughe furibonde nelle notti-mattine di Bologna per raggiungere McDonald’s; se dovessi ripensare a mio fratello che cammina solo, quella sera, dopo che avevo deciso controvoglia di andarlo a trovare nel tugurio di casa sua con la scusa di festeggiare l’esito di un mio esame sostenuto con un debosciato che scrive di cinema e ciarla di Heidegger con la vocetta flebile di chi per una vita è stato lo zimbello di uomini migliori di lui, dei quali però può ora insidiare le figlie dopo una militanza ventennale nelle schiere della schiavitù accademica; se dovesse per disgrazia tornarmi in mente il pomeriggio in cui sono andato da mio fratello dopo aver sostenuto un esame con quest’uomo insignificante, io, ancora ben vestito, mistico in erba, tracolla di pelle con dentro Plotino, Platone o Ficino, per trovarlo, mio fratello, con la faccia che poi avrebbe avuto per tutto il suo vagabondaggio notturno, rubizza, vene in fronte, al termine di una pausa in un’accesa disputa protrattasi fino alle tre del mattino fra lui e il suo coinquilino-amico dei tempi del liceo, un ragazzo in odore di ludopatia da MOBA tra una birra e l’altra, tra una contesa filosofica e l’altra, e quindi non meno sofferente di mio fratello per la combinazione di rifiuti in strada e rifiuti amorosi, puzza di urina, sudore, sigarette e gomma bruciata che costituisce, nel suo insieme, l’esperienza-Bologna; se dovessi ricordarmi di quando sono entrato in casa loro trovandomi bloccato nel corridoio d’ingresso dall’oggetto della disputa, ossia una poltrona bergère rivestita di velluto rosso annerito da un sudicio che indicava nella strada la sua provenienza inequivocabile, poltrona che per mio fratello non doveva intasare gli spazi comuni con la sua sporcizia mentre per il coinquilino-amico trovava la sua ideale collocazione proprio lì, in quel corridoio, dove io, timidamente salutante, non riuscivo a farmi spazio tra i due oratori e la poltrona; se dovessi ritrovarmi, come allora, a pensare all’infinita ironia per cui due ventenni debbano scontrarsi sull’amministrazione di un trono raccolto in strada che forse ospita ancora un clan di blatte, all’ironia, cioè, del gridarsi in faccia direttive su come disporre della spazzatura d’altri mentre chi mi aveva esaminato solo qualche ora prima stava tranquillamente seduto nella propria, di poltrona, all’ironia di aver avuto in sorte il tesoro di questa spazzatura assieme ai cartelli stradali raccattati da studenti ubriachi che mio fratello avrebbe invece guardato furioso intorno alle tre del mattino, quando finalmente, a seguito di quell’ultima guerra tra miserabili, si sarebbe deciso a lasciare casa, coinquilino, poltrona, Facoltà di Lettere e Bologna tutta insieme, per andarsene a leggere Proust da McDonald’s, senza poi riuscire a leggerlo davvero, tanta era l’urgenza che sentiva di partire, di sradicarsi da lì come aveva sradicato il segnale di STOP lungo Via Santo Stefano, perché si rifiutava, e si rifiuta, di farsi dire quando fermarsi e dove mettere una poltrona bergère da chicchessia, fosse pure un cartello o un ignoto che da dietro una cattedra gli ingiunge “vada, vada” alla fine di un esame, e che aggiunge “venga, venga: signorina” a chi c’è dopo di lui; ecco, se dovessi ripensare a tutto questo, alla poltrona, ai cartelli, ai portici, alle scopate origliate a porte chiuse e alle pagine di Plotino sfogliate all’orto botanico nei primi ghiacciati giorni di marzo per trasmutarmi piano, speravo, per brinamento, in un pensiero puro la cui comprensione di se stesso fosse essa stessa se stesso, un pensiero che producesse un’identificazione totale fra me e mio fratello, fra me e il coinquilino-amico di mio fratello, fra me e i miei coinquilini-amici, che si sono uccisi cambiando paese e uccisi restando qui e uccisi giorno dopo giorno trascinando piedi stanchi su linee parallele a quelle delle legioni locali di vagabondi che disprezzavo; se dovessi ripensare ai miei coinquilini che disprezzavo, ai coinquilini di mio fratello che disprezzavo, a mio fratello, che disprezzavo, convinto com’ero di camminare unico e in fuga da solo a solo, e che ora non posso più disprezzare man mano che divento ogni giorno meno unico e più simile a loro, che sono molti, man mano che divento loro; ecco, se dovessi ripensare a tutto questo, a Bologna, a tutti loro, con anche solo l’ombra della benevolenza, se dovessi subodorare nei miei pensieri o nelle mie parole la più innocua e inoffensiva traccia di pietà, per favore, fa’ una cosa: ammazzami.
Illustrazione originale di Stefano Porro (Pedro)
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