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Racconti | Franky

Esco fuori di casa e corro. Calpesto la ghiaia e le foglie secche. Il cielo è bianco calce. Mi schermo gli occhi con la mano. Faccio una sosta sullo spiazzo erboso. Dall’interno arriva un chiacchiericcio confuso. Mi volto e osservo la finestra illuminata che dà sulla grande sala. Il tintinnio delle tazzine si mescola alle risate. La voce di mia madre è profonda. Distante. Preferisco il silenzio. L’aria fredda sulle braccia.

Massaggio i polsi e sollevo il capo. Il vento è uno schiaffo sulla fronte. Sorrido e ripenso a poco prima. Alla lama fredda che premeva sulla gola. Al rosso posticcio del ketchup che m’imbrattava la pelle.

Franky mi ha fissato con occhi vacui. «Che gioco stupido!» Ha sghignazzato. Ho sorriso al mio riflesso nello specchio e digrignato i denti. Ho fatto scorrere la lama per finta. Franky ha smesso di ridere ed è scoppiato in lacrime. Piangeva come un vitello scannato. Ho fatto cadere il coltello e sono corso ad abbracciarlo.

«Franky» gli ho detto «Io non ti lascio se tu non mi lasci».

Lui ha annuito e ha indicato la scritta sulla carta da parati sopra il letto.

«Resto, se vuoi, ma tu sarai sempre suo».

Ho scosso la testa e l’ho accarezzato.

«Non si metterà mai tra di noi».

Gli cingo le spalle e chiudo gli occhi. Mi piace immaginarlo biondo. Con il grasso sotto il mento. Come Hansel, nella favola che mi leggeva mia madre.

Ho sollevato le palpebre e Franky non c’era più. Avevo le braccia vuote. Ho ruotato il collo e guardato la scritta che mi aveva indicato. La camera del bambino. Mia madre ha dato un nome a tutte le stanze. Le lettere sono dipinte con la tempera rossa. 

«Armin?»

Mi stava chiamando. Quando lei mi cercava, Franky scompariva. Era così da quando avevo tre anni e immaginavo che lui fosse piccolo come un orsacchiotto. Ci incontravamo solo di notte, prima che mi addormentassi. Solo il giorno in cui mio padre se n’è andato, Franky è stato con me tutto il giorno. Mi sono chiuso in camera e lui mi è apparso. Somigliava già a un bambino biondo.

«Succede sempre così. Niente dura con lei» ha sospirato. Nel naso mi era rimasto l’odore affumicato dei gas di scarico. Ero corso dietro la macchina e avevo urlato a mio padre di non andarsene. L’ho raccontato a Franky, singhiozzando, e lui ha alzato le braccia. 





Mia madre, quella volta, è rimasta nella sua stanza. Non l’ho vista fino al giorno dopo. Ho abbracciato Franky talmente forte che ha lanciato un grido. Più lo stringevo, più il petto mi si schiacciava. Ho aperto la bocca e ho affondato i denti nell’ombra.

«Franky, resta con me».

«Perché mi mordi?» ha sussurrato.

Ho strappato brandelli di oscurità e silenzio. Franky appariva e scompariva sempre come un’interferenza di luce.

«Se ti mangio, non mi lascerai mai. Starai sempre dentro di me».

Franky ha riso. Poi ha pianto.

«Se mi mangi, scompaio».

Ho sputato per terra e ho pulito la bocca con la mano. Sentivo sui polpastrelli il sangue inesistente del mio amico immaginario.

Adesso sono qui. Rimango fuori per un po’ e raccolgo le foglie secche con il rastrello. Dopo che mi sono puntato il coltello contro, Franky è scomparso e lei urlato il mio nome dal piano di sotto. Sono corso giù per le scale. Lei mi aspettava con le braccia conserte. Picchiettava su una mattonella con il piede e indicava la cucina con il mento alzato. «Si può sapere che cosa fai sempre chiuso lì dentro?» 

Ho incassato la testa fra le spalle.

«Abbiamo ospiti, vai a preparare il tè».

Sono andato in cucina e ho messo l’acqua a bollire sul fornello. Avevo un vuoto, dentro. Buchi larghi come fosse. La bocca era un pozzo. Lo stomaco una voragine. 

Mamma è entrata in cucina. Ha aperto la dispensa e ha agguantato la scatola di latta con i biscotti. «Mamma?» he ho chiesto con la tazzina in mano.

Lei mi ha guardato storto e ha arricciato le labbra.

«Armin, si può sapere che c’è? Abbiamo ospiti. I vicini. Dobbiamo essere gentili con loro».

Ha sbuffato.

«Ci possono dare una mano, se ne abbiamo bisogno. Sono una donna sola, lo vuoi capire?»

L’acqua borbottava nel pentolino. Ho girato la manopola del gas.

«Ho iniziato a lavorare, mamma».

«E ci mancherebbe pure» ha sibilato.

«Peccato che quando sei a casa, ti chiudi sempre in camera. Credi che sia scema? So quello che fai».

«Mamma, perché non posso invitare qualcuno, come fai tu con i vicini?»

Lei ha sorriso e alzato un sopracciglio.

«Non voglio estranei in casa mia. I vicini li conosciamo e possono aiutarci, se siamo in difficoltà».

Ho dimenticato la presina. Ho afferrato il pentolino e mi sono scottato.

«Mamma, non vorresti che avessi qualcuno?»

«Qualcuno come tuo padre? Qualche stronza che ti pianti in asso da un giorno all’altro, come ha fatto lui?»

Ho sospirato. L’ho guardata negli occhi e nella pancia mi si è formato un cratere.

«Devo farmi una vita come tutti».

«Come no» mi ha ringhiato contro. «Ho visto le ragazze che inviti. Puttane! Sei un imbecille. Come tuo padre».

Sono rimasto in silenzio. Ho servito il tè ai vicini e sono uscito fuori.

Mi piace stare all’aria aperta. Quando ero piccolo, mio padre mi portava vicino al fiume. Mangiavamo i panini con la salsiccia e respiravamo l’aria fresca. Mi piaceva Essen, anche se c’era la Krupp e non sempre si respirava bene. Vivevamo vicino alla campagna, come adesso. In una casa con le facciate bianche e gli alberi intorno. 

Rothemburg è bella. Ma la casa in cui abito con mamma ha troppe stanze. C’è così tanto vuoto dentro. Lo stesso vuoto che mi scava dentro la carne. Che mi fa venire fame. Fame di corpi e di presenze.



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