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Racconti | Ira di Achille



 

Testo di: Elena R. Marino Illustrazione di: Irene Di Oriente

 



Talmente grande l'ingiustizia, talmente esorbitante, talmente insopportabile, che era rimasto senza parole.

Blu profondo del cielo e gabbiani a sorvolare con urla l'andirivieni annoiato degli esseri umani in guerra, sempre la stessa, da un tempo indefinito. Ogni cosa appariva normale, e non poteva più contenere l'insorgere del suo strabordante silenzio. Dove metterlo un silenzio così grande, che cresceva a un ritmo implacabile, e presto avrebbe svettato su tutto e su tutti?


Gli avevano fatto un'ingiustizia che l'aveva non solo ferito: lo aveva annullato. Ma adesso che era stato annullato, la sua essenza ribolliva con una violenza tale che, per la prima volta nella sua vita, Achille seppe compiutamente di essere se stesso in modo incontrovertibile. Di quale ingiustizia si trattava? Non era importante. Non era importante l'ingiustizia, ma il fatto che fosse accaduta, e che fosse accaduta a lui. E non perché lui fosse lui, ma semplicemente perché così si apriva una buca nel terreno dell'esistenza, una buca nella quale chiunque altro avrebbe potuto cadere dentro. Lui era come chiunque altro, ma sapeva di esserlo (ecco la differenza!) e si sbagliavano coloro che pensavano – e andavano in giro dicendo – che ritenesse di essere chissà chi: Achille era conscio, in modo addirittura doloroso, di non avere nessun titolo particolare che lo distinguesse dal resto dell'umanità, ma proprio questa intima convinzione era servita da detonatore per l'impensabile esplosione che adesso avveniva, al rallentatore di un gelo primordiale, dentro di lui (e ben presto fuori di lui, non poteva essere altrimenti). Essendo egli come tutti, né più né meno, l'ingiustizia compiuta contro di lui era compiuta contro l'umanità tutta, anzi, contro l'essenza stessa dell'equilibrio universale. Era la goccia che aveva fatto traboccare il vaso di un accumulo di millenni, un accumulo dovuto alla stupidità degli esseri umani, o meglio, di alcuni esseri umani, riuniti in un consorzio di stupidità dal titolo altisonante: Potere. Non la natura, non la realtà delle cose, non il giro incontrovertibile dell'universo avevano macchia di questa stupidità, bensì solo alcuni esseri umani. Agamennone prima di tutto, con la sua boria, la sua prepotenza e la sua malignità per le quali aveva preteso di sottrargli la schiava conquistata in guerra, la sua Briseide. E poi tutti quelli che non avevano protestato, ma con occhi lunghi di cane nella fronte abbassata avevano lasciato che la cosa accadesse, e avevano orinato sul fatto come inevitabile: si erano adeguati ai capricci isterici di Agamennone.



Non c'era soluzione. Avrebbe potuto passarli tutti a fil di lama (gli era sempre piaciuta questa immagine: che la lama fosse un filo dritto e imperturbabile, come quello che regge la bilancia della Giustizia, e sezionasse in due parti quanti avevano troppo male mescolato insieme al bene: del male in eccesso, molto più di quello che la natura permette nei suoi indiscutibili equilibri). Ma no, questa volta non sarebbe bastato: ciò che lo aveva morso dentro era stata non la rabbia, bensì la sorpresa, molto più pericolosa. Non si aspettava che arrivassero a tanto. Così la spada e il suo filo e la sua giustizia d'un tratto si erano sgonfiati, immiseriti, erano divenuti inutilizzabili, perché tutto ciò che avrebbero potuto fare (uccidere) non sarebbe bastato. Uccidere non bastava, non avrebbe riportato le cose in ordine. Ormai quella sorpresa inaudita, che gli aveva spalancato dentro una voragine di rabbia congelata, tanto che non sembrava neppure più rabbia ma appunto solo sorpresa, non poteva più essere riportata all'ordine: occorreva che si manifestasse in tutta la sua potenza. Nessun risarcimento, nessuna soluzione: anche se gli avessero ridato Briseide, l'ingiustizia era comunque avvenuta. Perfino se Agamennone avesse chiesto scusa, le cose non sarebbero tornate al loro posto: il solco era stato tracciato. Non era più questione sua personale: era ormai divenuta cosmica, o almeno geologica.



Illustrazione originale di Irene Di Oriente (https://www.instagram.com/irenedioriente/)




Achille, fermo accanto alla tenda, seduto su una roccia, iniziò a crescere. Gli si gonfiarono le natiche, e in mezzo alle cosce che aumentavano si seppellirono gli attributi virili. Si gonfiò il dorso, e gli addominali. Le spalle si dilatarono, i piedi di allungarono. Ma ben presto i muscoli pettorali crebbero a tal punto da deformarsi. Il suo corpo saliva dilatandosi verso le nuvole, e dall'accampamento chi si era accorto dell'evento fissava ora verso l'alto una montagna che sorgeva e s'ingrandiva a vista d'occhio, una montagna umana che diveniva sempre più disumana. I seni svettavano, e nella forra tra le cosce gli attributi erano stati riassorbiti completamente in un orrido che sembrava puntare al centro della Terra. Il dorso di Achille ormai gettava ombra su tutto il litorale, dove erano ormeggiate le navi del Greci per l’eterna presa di Ilio, e a molti pareva di udire un sordo brontolio che saliva dalle radici della pianura, e montava sempre più a scuotere ogni cosa. Dilatato fino al cielo, il corpo ormai inamovibile dell'eroe divenne indefinibile, di certo ingombrante, non più evitabile. L'accampamento era stato lentamente divelto, tenda dopo tenda, e quando la crepa nel terreno giunse fin sotto i piedi di Agamennone, questi abbaiò di paura come un cane, e perse la ragione. Anni dopo andava ancora dicendo di aver vinto la guerra, e di aver ottenuto vittoria anche su Achille: persino quando sua moglie, ormai stufa della sua pazzia, lo sgozzava nella tinozza di sangue, fra i gorgoglii rossi e spumeggianti urlò di essere felice, perché aveva vinto, aveva vinto tutto, aveva vinto come essere umano ai giochi degli esseri umani, e non come pietra, non come montagna sorta dal nulla, non come testa di rabbia nel mezzo al cielo, per sempre, non come Achille la pietra.





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