Racconti | KŌSAKU - a yakuza story -
- rivistagelo
- 7 apr
- Tempo di lettura: 13 min
Testo di: Antonio Amodio Illustrazione di: Simone Paesano Editing di: Pietro Emiliani
I
Senza neppure un lampo di freccia, Tetsuo voltò a sinistra. Scivolando in prima
lungo i distributori della Mitsubishi Oil che costeggiavano la statale deserta, la sua
berlina borbottò un metro ancora, poi fermandosi accanto all’ultimo totem. Tetsuo la
parcheggiò lì, dopo uno scattino di chiave che lasciò a sviolinare nella brezza solo
l’ennesima cantilena straniera sugli Ottantadue-e-sette, una ballata presa per la coda.
Nel mio sonno c’è, c’è qualcosa in più, prima un albero, poi un bosco e...
E gommisti, vide Tetsuo per un attimo, e autonoleggi e container e il ventoso
sfrecciare delle macchine lungo la tangenziale di fronte al benzinaio, tutt’addossata su
quell’enorme nube di smog e neon che era l’aeroporto.
Prendi la mia mano, siamo ancora in tempo, sai, per perderci nel...
Lasciando la radio a gracchiarsi da sola il ritornello, Tetsuo sfilò di tasca un
mucchietto di spicci e s’avvicinò alla cabina più avanti. Le monetine tinnirono tonfo a
tonfo giù per la fessura, finché l’uomo digitò il numero e sganciò la cornetta.
Uno, due, tre squilli nell’eco del cavalcavia, poi fruscii, una voce di donna.
«Yuko.» mormorò lei. Tagliente, rapida, sul chi vive.
«Ispettore. Sono Shibata.»
«Shibata?» dall’altro capo, uno sbuffo e le note d’una melensa pappa degli Orange
Range «Ma che vuoi a quest’ora? Sono fuori servizio.» fece la donna «E a momenti mi
viene a casa una figa fotonica vestita come Aya Brea, per cui richiama domani, eh?»
Tetsuo la ignorò.
«Sto andando al Terihanomori. È per un caso, e mi servono rinforzi. Roba grossa.»
«Al Teriha-? No, Shibata, frena. Di che parli? Un caso? Il sovrintendente Fuiji t’ha finestrato allo sgabuzzino prove, bello mio, per cui senza un sì da Sua Maestà Boccia-
keishi, te non sbiglietti neppure un cazzo di multa. E poi» aggiunse, con Tetsuo che ora
la sentiva muoversi nervosa su e giù per la stanza «quel parco è fuori dall’autorità della
Chūō. E coi problemi che creeresti al grande capo» sospirò «io al posto tuo eviterei
d’andarmene a pisciare dove non devo. Quindi adesso mi fai un bel drin drin al
centralino di Higashi, parli col sergente, il turnista del Centodieci, chi vuoi, e lo avverti
che lassù c’è da mandare subito una squadra.»
Tetsuo sferrò un pugno alla cabina.
«Non mi serve la paternale, ispettore. Mi serve aiuto.» insisté «Conosco l’ora e il
luogo dello scambio, e starmene qui a supplicarla spreca solo tempo prezioso. Ve l’ho
già detto, è roba grossa. Con uno di fuori.» chiarì lui «E forse c’entra il Clan Koga.»
Un profondo respiro sfrigolò attraverso la statica.
«E mi dici tu come faresti a saperlo?»
«Un memorandum della Crimine Organizzato.»
Dall’altro capo sibilarono dei rabbiosi «Porca puttana.» e un «Sempre peggio.»
«Yuko-keibu?»
«Shibata, senti, non prendermi per il culo.» gli sbottò durissima la donna, mentre la
voce le si distorceva in una specie di ringhio elettrico «Nessun memorandum è così
preciso. Da dove l’hai tirata fuori st’indagine? Non dirmi che te ne vai per mezza
Fukuoka come Zatōichi a far-, anzi. Lo sai che c’è?» s’interruppe «Zitto e mosca, mh?
Non una parola di più.» gli ordinò «Se pure hai messo cimici a insaputa della procura o
tallonato chicchessia, è bene che lo tieni per te. Dimmi solo quand’è lo scambio, così
magari sistemiamo il problema tenendoci entrambi la placca, e senza finire ammazzati.»
«Devono vedersi al centro del parco fra mezz’ora.»
«Manca molto da dove sei?»
«No. Sono fermo al Mitsu Oil della Statale Tre.»
«Quello dell’aeroporto?»
«Sì.»
«Mh. Sei armato?»
«Ovviamente.»
«Tsk. Ovviamente.» ronzò esausta l’ispettore Yuko «Va bene. Allora corri laggiù e
aspettami. Entrerai nel parco a piedi, suppongo.»
«Sì. Mollerò la macchina un po’ prima dei cancelli.»
«La tua Legend?»
«Sì.»
«Un secondo.»
Un frettoloso scalpiccio saettò a morire lontano dalla cornetta per poi tornarvi calmo.
«La targa. Veloce.»
«Fuku. Oka.» iniziò a elencarle Tetsuo, assecondando il passo della collega che nel
frattempo s’appuntava ogni sillaba «Tre. Due. Zero. Ki. Nove. Uno. Cinque. Sei.»
«Ci vediamo là il prima che riesco.» la sbrigò spiccia Yuko «Ho casa dalle parti del
Reisen, non è lontano.» aggiunse «Tu intanto piazza la vibrazione al cellulare, ficcatelo
in tasca e sorveglia lo scambio. Ti squillo appena entro e poi arrivo.»
«Va bene.»
Allora Tetsuo fece per agganciare ma-
«Oh! Shibata?»
«Sì.»
«Sto tirando il bidone a una cosplayer di ventidue anni. Questa me la paghi, cazzo.»
Clic.
II
Col retro stipato a tappo, mentre lo châssis e le sospensioni squittivano zavorrati
all’inverosimile da quella vagonata di casse, l’HiAce si fermò al rosso. Un trappolone
dell’Ottantanove gli avevano accollato, che faticava pure sui rettilinei. Fuori, appena
smosso da un filo di brezza, nel frattempo, c’era un silenzio irreale. Ovunque, lungo gli
alogeni bagliori della 202, i detriti e le vetraglie dell’ultima scossa luccicavano a mucchi
sui marciapiedi, con solo qualche casco d’argento volontario a spalare fra le rovine.
Imbevendosi di luce verdognola, il Toyota ripartì. Dalla plancia, in cifrette
fosforescenti, tremolava l’ora: 11 e 48. Il cellulare squillò un attimo dopo.
Sul display apparve il numero del sovrintendente Fuiji e Ren prese la chiamata.
«Zhang.» esordì lui, gettando la Camel dal finestrino.
«Dove sei?»
«All’incrocio con la Watanabe-dori. Sarò al parco fra una ventina di minuti.»
«Cablato?»
«Sì.»
Ren sporse il gomito di fuori.
«Ascolta.» proseguì Fuiji «Occhi aperti con Hojo, mi raccomando. Queste nuove
generazioni di kyōdai, Zhang, è... È sangue cattivo. Nessuno fra loro si farebbe mai gli
scrupoli degli oyabun d’una volta.» lo avvertì «Adesso, lungi da me starmene qui a
recitarti la predica. Lo so che all’Interpol avete già esperienza nelle operazioni sotto
copertura, ma oggi la posta è bella grossa. E se Hojo non finisce al gabbio entro
domattina, di arrestare gli altri ce lo scordiamo.» ribadì apprensivo, aggiungendo che «Il
Clan Koga va smantellato il prima possibile, Zhang. Perché se quelli hanno davvero
intenzione di fare le scarpe alla Fukuhaku-kai, come vuole Hojo, i vari capi della
Fratellanza Sansha di sicuro non resteranno fermi lì a grattarsi le palle. Soprattutto
quando una nullità tipo Kenichi Hojo, all’improvviso, decide di sputtanare anni di
perfetto equilibrio scatenando una guerra che nessuno vuole. Sarebbe un massacro,
capisci?» gli rivelò «E quaggiù non è come nel Kansai, o a Tokyo, dove oramai è
difficile che i bōryokudan arrivino ai ferri. Fukuoka può piombarti nella violenza da un
momento all’altro. E se qui, per arginare l’anarchia fra i clan, è spuntata una rete come
la Sansha-kai, credo che la ragione la trovi da solo.»
Imboccata la Showa-dori, Ren tirò dritto fino al semaforo appena prima del ponte.
«Capisco.» gli rispose, fermandosi all’ennesimo rosso «E dei suoi che mi dice? Ha
poi coinvolto qualcuno della Chūō nell’operazione di stanotte?»
«Non della Chūō, no. E neanche dagli altri distretti, escluso Higashi. Ma riscattando
un favore alla Prefetturale di Ehime» spiegò tranquillo Fuiji «m’hanno accordato un
paio dei loro ispettori. Uomini ligi, svegli e senza legami diciamo... Ambigui. Per cui
no. Le schede sull’operazione non sono mai uscite dai miei cassetti. E se pure ci fosse
una fuga d’informazioni, nella peggior ipotesi, quel fascicolo figurerebbe come un
semplice rapporto di sorveglianza. Ho preso tutte le accortezze possibili, Zhang.»
«Bene.»
«Tranquillo.»
Verde.
Il furgone ingranò a fatica la marcia, e passando il Nishi-Nakashima proseguì dritto
verso il ponte sull’Hakata. Clacson lontani echeggiavano fra i grattacieli del quartiere.
«Come vuole che proceda?» domandò Ren al sovrintendente.
«Fallo parlare un po’. Ci serve anzitutto una riprova sulla questione guerra, perché
un’accusa così, in tribunale, non gli lascerebbe scampo. Hojo nel nastro dovrà
segnalarci chiaramente che i ferri li prende per attaccare quelli del Clan Fukuhaku.»
«E l’arresto, invece?»
«Le manette dopo i soldi. Procedura standard.» lo rassicurò Fuiji calmo «Il van della
sorveglianza sarà già in appostamento lì, due isolati più a sud, e lo scambio lo
seguiranno i colleghi della Higashi. Dovesse buttare male, arriverebbero al volo.»
«Grazie.»
«Bene. Allora ci aggiorniamo dopo l’operazione, Zhang. Buona fortuna.»
Ren riagganciò.
Al Terihanomori arrivò a mezzanotte passata, e dai giardini, frattanto che le sue dita
componevano rapide il numero di Hojo, spirava un venticello sapido d’erba e iodio.
«Oh. Che c’è? Problemi?»
«Nessun problema. Sono qua.» disse l’agente, specchiandosi nel retrovisore «Ma
t’avviso, huǒjì, se tardi anche mezzo minuto, leh, tocca che ti trovi un altro grossista.»
«Arrivo, cinese, arrivo. Tu però nel frattempo stai fermo lì e non rompermi le palle.»
«Spicciati.» rimarcò Ren «Ché se un cazzone d’impiegato scende a pisciare il
cucciolo, e poi chiama il Centodieci, finiamo entrambi nella merda.»
Hojo agganciò senza rispondergli e Ren tornò a guardare lo specchietto.
La fiammata dell’ennesima Camel brillò nei suoi occhi lividi. Dacché l’avevano
prestato ai giappi per l’operazione – si vide riflesso lui – solo in quell’attimo di tombale
silenzio, dopo tre mesi, s’accorgeva suo malgrado di come le rughe, la barba ispida, i
nei e finanche le zampe di gallina rimandassero al viso d’un estraneo. Per una frazione
di secondo, quel breve, brevissimo istante in cui ci si smarrisce a fissare troppo a lungo
uno specchio, Ren Zhang faticò a riconoscersi. Guarda tu se fra un po’ non mi tocca la
tinta, pensò aspirando un alito di fumo, ma chi ce l’ha i capelli bianchi a trent’anni?
Sembro una mummia, insisté fra sé, poi ficcandosi la .38 nella cintola. Non sono io,
questo. «Questo è Lin Jian-guo.» si ripeté Ren ad alta voce «È la missione. È un ruolo.»
Chissà, magari anche l’ultimo, sperò allora, mentre tirava piano dalla paglia.

Illustrazione originale di Simone Paesano
III
Alla mezza precisa, Tetsuo raggiunse il parco, sgattaiolando a seguire le tracce degli
pneumatici di Zhang fino al centro dei giardinetti, dove in ultimo notò anche il furgone.
Nascostosi fra i cespugli, allora, puntò immediatamente il binocolo sul Toyota grigio più
in là e mise a fuoco la scena. Giusto un attimo dopo, mentre collegava le cuffie al
direzionale per ascoltarsi anche l’audio, dalle ore due gli apparve uno, borsone in una
mano e Beretta nell’altra, che se n’andava camminando a passi svelti verso l’HiAce.
Sul metro e sessanta-sessantacinque, uomo, asiatico e in tutona Reebok come uno
spaccino di Harajuku, il tizio aveva i capelli quasi rapati a zero, d’un verde fluo alla
Dennis Rodman, e giunto alla portiera del guidatore iniziò, toc toc, a bussargli col ferro.
Tetsuo lo riconobbe dalla segnaletica nel fascicolo di Fuiji-keishi.
Toc, toc, toc.
E Zhang, voltandosi, fece lo stesso, ché a una spanna dal volto ritrovò il grugno duro
di Kenichi Hojo, kyōdai del Clan Koga e – come s’augurava – prossimo pigionale al
carcere metropolitano di Sawara.
«Oh. Dài, scendi.» gli fece subito il gangster «Devo perquisirti.»
«Non c’è bisogno.» replicò il cinese, spostandosi un lembo del giaccone a mostrargli
con calma l’impugnatura della Smith & Wesson che sbucava fuori dai pantaloni.
«T’avevo detto niente armi.»
«Perché? La tua spara confetti al caramello? Ascolta.» lo guardò negli occhi Zhang,
ma sempre a palmi sullo sterzo «Ho le mie regole, io. E l’assicurazione quando tratto
con gli sconosciuti è in cima alla lista, per cui ora scegli tu. Possiamo abbaiarci addosso
un altro po’, se preferisci, o parlare d’affari.»
Hojo parve irrigidirsi appena, e un attimo dopo gli puntò la Beretta dritto in faccia.
«E se adesso ti buco il cranio e mi prendo tutto? Eh, pechinese?»
«Guarda che sono del Sichuan, cazzo a spillo. E sai, magari ti conviene abbassarla,
quella lì, se fra due giorni non vuoi ritrovarti a tocchi dentro una ciotolina di ramen,
perché forse t’è sfuggito chi mi paga.» lo incalzò Ren «I miei, giù a Kowloon,
s’aspettano una telefonata dopo lo scambio. E se la saltassi, beh... Da laggiù verrà uno
zietto che conosce la tua faccia.» gli rivelò «E quando crei casini ai 14K, huǒjì, non te la
sfanghi tagliandoti un mignolo. Wakatta?»
«I 14K? L-lavori per la Triade?»
«Certo che sì, coglione d’un giapponese. Altrimenti dove rimediavo tutta la merce?»
Ghignando, appena un po’ nervoso, Hojo abbassò la pistola e «Tranquillo, gaijin.
Tranquillo.» gli sorrise, lasciandolo uscire dal furgone «Ti rompevo il cazzo e basta.»
Zhang annuì sarcastico.
«C’è tutto?» riprese Kenichi.
«Fino all’ultimo pezzo.» fu la replica, mentre Zhang apriva gli sportelli del cassone a
mostrargli la mercanzia sul retro «Cinque mitragliatrici RPK.» iniziò allora «Due RPG,
trentacinque KS-23, cento Tipo 64, trenta Makarov, dieci Bizon, una settantina di
Skorpion, cinquanta Kalashnikov e centocinquanta granate 82-2, gentile omaggio della
Repubblica Popolare.» ironizzò «Ma passando ai proiettili, ora, sono tremila per calibro,
come avevamo detto. Più i venti razzi, ovviamente. Insomma» disse ravviandosi un
ciuffo di capelli dal viso «hai abbastanza ferraglia da far saltare il culo a Kim Jong-il.»
«Lo vedo, Sichuan. Lo vedo.»
«Già. È proprio l’arsenale per una cazzo di guerra. Chi vuoi seppellirci con queste?»
Hojo gli scoccò un’occhiataccia.
«Che ti frega?» ringhiò.
«È per i nostri... Rapporti a lungo termine.» replicò Zhang voltandosi «Vedi, Hojo,
io sarò pure cinese, ma fesso no. Anche il Clan Fukuhaku compra dal sottoscritto, e m’è
giunta voce che a breve molti di loro andranno... Diciamo in vacanza, mh? Per cui, se
mi toccherà lavorare solo con voi Koga, tipo monopolio, allora il dragone giù a Hong
Kong va informato sul futuro prossimo.» rimarcò «La Triade può aiutarti. E anche
parecchio, bello. Ma una volta che ce l’hai per soci, dovranno sapere ogni microscopico
cazzo di cosa fai quaggiù.» lo avvertì allora «Lì gira una mentalità vecchia scuola. E
loro detestano le mine vaganti, non so se rendo l’idea.»
Kenichi annuì.
«Rendi, rendi.» gli fece «Infatti puoi tranquillamente riferire che quegli stronzi del
Clan Fukuhaku finiranno presto all’obitorio. Manca pochissimo, te l’assicuro.»
«Perciò vuoi... Spazzarli via?»
«Proprio così.» gli rivelò Hojo «È davvero troppo tempo che ci abbaiano addosso.»
«E la Sansha?»
«Quelli? Tsk.» Kenichi sputò sull’erba «La Sansha farà la stessa fine, gaijin. Entro un
mese al massimo, il mio clan avrà ferri e uomini per scoparsi pure i vecchi oyabun della
Fratellanza» svelò «e una volta che ci spariranno dal cazzo, finalmente la Yamaguchi la
smetterà di trattarci come un branco d’handicappati.»
«Chiaro.» assentì calmo Zhang, blandendolo appena «Ola che padlone visto liso,
pelò, padlone sganciale soldo. L’hai portati?»
Hojo gli allungò la sacca.
«Certo, ladro. Quaranta milioni e settecentomila. Contali e non ti strozzare.»
Zhang aprì la borsa, notando un bel po’ di yen già mazzettati a regola d’arte.
«Oh, huǒjì, ladro a me non lo dici. Piuttosto prenditela col governo.» abbaiò lui «Se a
differenza degli americani vivete in un paese dove scambiano per armi letali pure i
chiodi» alzò le spalle «io non ne ho colpa. E poi ti ricordo che quella lì non è la solita
roba da mercato nero.» proseguì «È surplus militare sovietico. Ferri nuovi di pacca e
mai usati finora, per cui valgono esattamente il prezzo che faccio.»
«Come l’hai rimediata?»
«Abbiamo un aggancio nel partito, a Kashgar. Un tipo affidabile. La roba gli arriva
dai vari Fanculo-stan oltreconfine.» asserì Zhang «E a noi ci alza un bel po’, devo dire.»
«Ho capito, ho capito. Adesso sbrigati però. Co’ quella merda di Toyota che
m’accolli mi ci vorranno due giorni a tornare in città.»
Come da segnale, allora, il Samsung di Tetsuo vibrò un paio di squilli. Girandosi,
mentre il binocolo gli penzolava dalla cinghia, scorse Akari al suo fianco, trafelata.
«Chi c’è laggiù?»
«Non lo so. Guarda tu stessa.» le sussurrò passandole il binocolo «Uno dei due viene
da fuori.» aggiunse Shibata «Kowloon, a quanto dice. L’altro è un kyōdai del Clan
Koga, c’era una sua segnaletica nel fascicolo di Fuiji-keishi. Credo si chiami-»
«Hojo.» lo anticipò l’ispettore Yuko «Kenichi Hojo. E sì, è un affiliato del clan.»
«Quindi? Ci muoviamo?»
Akari gli restituì brusca il binocolo.
«No. Senti, Shibata, ho cambiato idea. Ora noi due leviamo le tende.» mormorò,
voltandosi pallida verso di lui ma tentando, nel frattempo, di restarsene dietro al
fogliame dei cespugli «E lo capisco, credimi. Sì, vuoi provare al vecchio che hai la
stoffa, che hai due coglioni da toro, ma se c’è già un fascicolo sulla scrivania di Fuiji,
allora potremmo intrometterci a scasinare un’operazione attiva.» gli ringhiò a mezza
bocca «Ci cacceranno entrambi, è chiaro? E io non ho alcuna voglia di fottermi la vita
per colpa tua, quindi adess-»
Dallo spiazzo dello scambio, d’improvviso, giunsero parole urlate.
Interpol! Getta l’arma e alza-
«Interpol?» sussurrò Tetsuo fra sé.
«Che? Interpol?»
Tre spari velocissimi sfondarono quella notte di vetro come un dannato selcio.
Hojo aveva steso il tipo ed era immobile laggiù, fremiti alle mani, pistola in pugno e
col fumo a velargli la faccia sconvolta. Crivellato a morte, il cinese riuscì a fiottare solo
qualche altra sillaba lorda di sangue, poi si rivoltò trippa sull’erba e stirò le zampe.
«Ehi, Shibata!» gli urlò Akari alle spalle «Ma dove cazzo vai?»
Sfoderando l’arma, Tetsuo si lanciò verso Kenichi e il furgone.
Hojo sparò altri due colpi, entrambi a vuoto.
«Polizia di Fukuoka!» gridò allora il sergente «Butta la pistola e-»
E in quella brevissima sistole, mentre tutto andava rallentando, come nei sogni,
l’unica sensazione che Tetsuo avvertì fu la gelida Nambu di Akari. Dritta sulla nuca.
In un attimo, il proiettile gli smarmellò il cranio e lui le rovinò davanti a piombo,
stecchito, con le cervella che nel frattempo schizzavano a sporcare l’erba umida.
Yuko abbassò l’arma.
«Baka.» mormorò al suo appena defunto collega, in un ringhio sommesso «Guarda
che devo accollarmi per farti ragionare, testa di cazzo.» ma lo sguardo, nemmeno un
attimo dopo, le saettò furioso sul vero problema della storia «Tu.» latrò avvicinandosi a
Kenichi, con le unghie a ferirle i palmi «Che cazzo hai fatto, merdone?»
Hojo rinfoderò la pistola nella cintura e aspettò la poliziotta, senza muoversi dal van.
«Beh?» fece spalancando le braccia «Ho ammazzato uno sbirro. E quindi? Che
dovevo fargli? Una sega?» ora Kenichi suonava tronfio come prima «Ha messo mano al
cannone, Akari. Gli avresti sparato anche tu. Ma... » esitò, poi accennandole alla
sagoma di Tetsuo più in là «Vedo che stasera ci siamo già impegnate abbastanza, mh?
Chi è quello lì, bella? Un tuo collega? Fai secchi pure i poliziotti, adesso?»
Yuko gli arrivò a una spanna dal grugno.
«Se bisogna salvare quel tuo culo tatuato, forse sì. E comunque stavamo per
andarcene» rivelò lei «ma dopo i botti gli è scoppiata la brocca. M’è preso il panico,
Ken. Quello ci rovinava. Non era certo uno flessibile, mi spiego?»
«Mh. E che cazzo facevate nel parco? Un pic-nic?»
«È una lunga storia, ti risparmio i dettagli. M’ha trascinata qui perché voleva darsi
arie col Big Boss.» sventolò la mano Akari, poi accovacciandosi sul cadavere di Zhang.
«E tu ne sapevi niente?»
«No, Ken. Che cazzo di domanda. Credi non t’avrei avvisato d’una roba simile?»
«S-sì, hai-, è... Ma cosa fai?» quasi l’aggredì, mentre lei sfilava il giaccone a Zhang.
«Secondo te? Hai steso un infiltrato, imbecille. Cerco dati. Una nota, un bigliettino,
una traccia qualsiasi... Lui da dove sbuca, comunque?»
«Me l’ha presentato Noguchi.»
«Riku Noguchi? Quello del Clan Dōjin?»
«Eh, lui.»
«Oh. A-adesso capisco.» disse Akari, sempre china sul corpo dell’agente «Noguchi è
uno spione, testa di merda. A Kurume lo sanno anche i tombini.» frecciò «E se solo
avessi chiesto a me, prima di rimediarti un cazzo d’arsenale, a quest’ora non ci
sarebbero due sbirri con le cervella sparpagliate sull’erba.»
«Ascolt-»
«No, ehi. Silenzio. Ora il punto è la DCO.» lo interruppe Akari spiccia «Shibata, lì,
pace all’anima sua, diceva che alla Chūō hanno un fascicolo con dentro la segnaletica
tua e di Zenigata, qui.» proseguì frugando il cinese «Perciò stai nella merda. Lo scambio
era una trappola, Ken, e hai pure lessato uno dell’Interpol. Devi darti, aniki. E devi darti
veloce come un fulmine, prima che... Oh, no. No, cazzo. No, no!»
«Ehi? C-che succede?»
D’improvviso, insospettita dal bozzo sotto la camicia di Zhang, Akari ne alzò un
lembo e lo vide. Il radio-microfono, seppur zuppo di sangue, stava registrando ancora.
«Oh? M-mi rispondi?» la incalzò Kenichi «Pronto?»
Lei non aprì bocca, ma voltandosi, con le brume del Terihanomori che ora
prendevano a pulsare d’un blu intenso, realizzò immediatamente il finale della storia.
Chiunque fosse dentro al furgone civetta imboscato nei paraggi, a sorvegliarli occhi
pigri, e con le dita bisunte di teriyaki, stava mandando la grande carica banzai.
«Fanculo.» mormorò Akari nell’eco delle sirene «Potevo scoparmi Aya Brea.»
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