Testo di Marco Peluso Illustrazione di Stefano Togni
Faticavo a ricordare tutte le volte che mia madre mi aveva raccontato della nascita di mio fratello gemello Primo, di come il Signore l’avesse risparmiato dalla morte per me, altrimenti non sarei venuto al mondo. Ne parlava di continuo, un monito a cui consacrare l’esistenza.
Ada, la mia sola amica, era ossessionata da lui: pensava nascondesse qualcosa.
Ogni volta che entravamo in casa, fianco a fianco e senza alzare lo sguardo, temevo che Primo potesse ucciderla. Come sempre la porta della camera di mio fratello era socchiusa. Avrei voluto che le cortine calate si serrassero fino ad accartocciarsi, impedendo al più misero respiro di luce di bagnare quel corpo amorfo, curvo dinanzi a una scrivania zeppa di libri: escrescenze di parole e tumefazioni di pensieri che esplodevano dalle mura fin su quel viso pallido celato da una chioma corvina, una carcassa rannicchiata nel peccato del proprio mutismo, ridotta a una lapide di carne che non respirava, non parlava, eppure viveva.
Ada lo guardava ebbra di stupore e terrore.
La trascinai in fretta verso la mia camera, intimorito dal pensiero che Primo guizzasse fuori da quella fossa e ci inseguisse. Passando per la cucina incrociammo gli occhi di mia madre: stava davanti ai fornelli, una cariatide che rigirava adagio il mestolo in una pentola, malgrado mancassero sei ore alla cena, quasi la sua vita fosse un’instancabile corsa fra piatti da sgrassare, mobili da pulire e cibo da cucinare. In ogni più tenue movenza un potente senso di sottomissione alla vita la ingigantiva fino a renderla inviolabile, una martire che si arrampicava sui mobili per mondarli, strisciava sul pavimento per purificarlo e si librava sul soffitto per divorare il più invisibile brandello di polvere.
Accanto a lei, mio fratello minore Ismaele lustrava posate e pentole come un devoto chierichetto.
Afferrai il polso di Ada e filammo in camera mia. Lei cascò subito sul letto e affondò la faccia tra le mani, i gomiti puntati sulle ginocchia e lo sguardo fisso a terra.
La spiavo in disparte, cercavo di penetrare i suoi pensieri: un capannello di gente, un’autoambulanza e le volanti della polizia, e il corpo di Totore ’a Faina, il peggiore bullo della nostra scuola, riverso in una pozza di sangue, gli occhi spalancati su di noi e la gola recisa.
«Avrei voluto ammazzarlo io» bofonchiò.
Indietreggiai fino a sbattere contro la parete. Lei mi guardava dritto negli occhi.
«Tu non hai mai pensato di farlo?» aggiunse.
Chinai il capo. Per un istante scorsi un’ombra ingigantirsi su una parete del corridoio e dita ossute allungarsi verso di me.
Sentivo che Primo era lì.
Una volta a tavola non ci fu concesso di aprire bocca se non per mangiare. Mia madre era ancora ai fornelli, passava i piatti a Ismaele che li porgeva a noi come fossero offerte sacre. A capotavola, mio padre, con occhi ridotti a crateri fissava di sottecchi il piatto. Ogni boccone ingoiato era un atto di costrizione verso mia madre che lo spiava.
Primo era raccolto in un angolo, risucchiava tra le labbra i bucatini, sentivo che dietro i capelli lunghi e unti ci scrutava con i suoi occhi da rettile.
Ada sedeva al mio fianco, non smetteva di fissarlo.
*
Al termine delle lezioni, Ada mi attendeva fuori la classe, rossa in viso dall’eccitazione.
«Non può essere una coincidenza».
Aveva saputo che persino Primo era stato deriso dalla Faina. Lui, Primo, quell’ombra deforme che strisciava nei corridoi della scuola senza che nessuno osasse sfiorarlo; i professori lo osannavano e temevano, eccelleva in ogni materia e parlava solo per decantare lezioni che conosceva a memoria.
Da quel giorno Ada decise di trasferirsi in camera mia. Durante i pasti spiava ogni gesto di Primo, le dita acuminate che rovistavano nel cibo e i denti aguzzi lacerare brandelli di carne; ne studiava i silenzi, ne rubava gli sguardi. Di notte restava sveglia, gli occhi sbarrati sull’uscio della stanza di mio fratello, attenta a ogni fruscio, eccitata appena udiva un rantolo dal fondo del corridoio.
«Hai sentito?»
Iniziò persino a seguirlo dopo la scuola. Procedeva appiattita contro le mura degli edifici, pronta a nascondersi tra i rifiuti nel caso in cui Primo si fosse voltato. Ma lui non si girava. Non guardava nessuno. Strisciava i piedi sull’asfalto, appariva e svaniva tra i passanti in sbuffi di fumo. Tornava a casa e subito si immergeva nella sua tana, usciva solo per i pasti.
Ismaele, incollato alla gamba di nostra madre come una sua protuberanza, evitava lo sguardo di Ada, inchiodata sulla sedia a scrutare Primo, senza toccare cibo. Io lo passavo di nascosto a mio padre, prima che mamma se ne accorgesse, e lui lo divorava senza gusto, grugnendo e spiando con aria inferocita Ada.
Solo Primo non sembrava infastidito dalla presenza di Ada, la fissava di continuo, due bolle gialle ferme su di lei.
*
Cercai di cacciare Ada, ma appena la sfioravo urlava e dimenava la testa, i capelli arruffati le coprivano il viso smagrito, dandole l’aspetto di Primo.
Non usciva più da casa neanche per andare a scuola, e io con lei. Si era messa in testa di penetrare nella cella di mio fratello.
«Deve essere lì, la verità».
Restava ore nel mezzo del corridoio a fissare la porta della stanza di Primo, ma violare quel santuario era impossibile. Mia madre stava sempre in casa, custode della vita di quel suo figlio prediletto. Di mattina, quando Primo non c’era, la si sentiva scorrazzare di stanza in stanza, l’acqua picchiava su padelle e stoviglie e un perenne gorgoglio preannunciava il pranzo.
Se solo Ada provava ad avvicinarsi alla stanza di Primo, mia madre appariva nel corridoio, gli occhi di marmo conficcati su di lei.
Ma Ada non demordeva.
«Deve esserci un modo» ripeteva di notte, rannicchiata a terra, le palpebre corrose dall’insonnia.
Io le restavo accovacciato accanto, attento che mio fratello non strisciasse nel buio.
Ogni tanto lo si vedeva in fondo al corridoio, una macchia nell’oscurità in cui brillavano due sfere paglierine, non si muoveva, un’attesa che mi terrorizzava più della sua esistenza.
Dopo una settimana, Ada era ridotta a una vecchia. I capelli ingrigiti le coprivano il volto emaciato, gli abiti erano sbrindellati, la pelle era una velina sudicia incollata alle ossa. Non sedeva neanche più a tavola. Restava accovacciata in un angolo a fissare Primo, mentre lui guardava lei.
Aveva cominciato a dire che bisognava ucciderlo.
«Non c’è altra via».
Io restavo zitto. Temevo di acconsentire al suo pensiero, di percepire nel cuore che la morte di mio fratello, colui a cui dovevo la vita, fosse per me la sola liberazione.
Una mattina si udì un ruggito disumano provenire dalla cucina, poi un’eruzione di pentole franare sul pavimento.
Mia madre balzò dalla cucina e corse a quattro zampe verso la porta di casa, il volto deformato dalla rabbia e gli occhi intrisi di lava.
Sfondò la porta e svanì lungo le scale del palazzo.
Fermo davanti alla soglia della cucina, vidi una pentola abbandonata sui fornelli accesi e la cornetta del telefono penzolare dal tavolo.
Ada filò accanto a me. Prima che potessi fermarla sparì nella camera di mio fratello, inghiottita dal buio.
La raggiunsi a passo lento, intimorito al pensiero che Primo potesse sorgere dal pavimento e azzannarmi. Appena penetrai quella tomba avvertii un alito gelido lambirmi il collo.
Centinaia di libri formavano colonne polverose alte fino al soffitto, una lampadina spenta penzolava sul pavimento zeppo di pagine riempite con una grafia minuta, gli stessi caratteri incisi sulle pareti divorate dalla muffa.
Ada si affannava a frugare tra tomi e quaderni, spalancava le ante degli armadi ma non trovava altro che libri.
«Deve esserci qualcosa!»
Udii dei passi dietro di me e mi voltai. Ismaele era pietrificato sull’uscio, un bambolotto di carne dagli occhi gonfi di lacrime.
Ada volò fuori dalla stanza, le dita arcuate pronte ad afferrare la gola di mio fratello e la bocca spalancata in un ringhio feroce. Lo rincorse lungo il corridoio, urlando e agitando gli artigli, mentre lui piangeva e sbatteva contro le pareti, simile a una pallina di gomma.
*
Mia madre era tornata nel tardo pomeriggio assieme a Primo; lui era sgusciato subito nella sua tana e lei era corsa in cucina, inferocita. Sfregava con violenza le pentole e le sbatteva nel lavello, neanche si era accorta che Ismaele aveva le labbra cucite: si agitava accanto a lei, cercando invano di pulire padelle e stoviglie con i moncherini che Ada gli aveva conficcato al posto delle mani.
In serata, a tavola, Ada se ne stava carponi sul pavimento, le dita ficcate a terra e lo sguardo rivolto a Primo, abbandonato come sempre nel suo angolo.
Venimmo a sapere da mio padre che uno dei professori di Primo era stato ucciso, lo stesso che aveva telefonato a casa in mattinata, minacciando di mettergli una misera sufficienza in matematica.
Era stato trovato in strada, con la gola mozzata.
Ada guizzò sulla tavola, afferrò un coltello e si scagliò contro mio fratello.
«Basta, bisogna ucciderlo!»
Primo balzò su una parete e corse via dalla stanza, rapido come un ragno, inseguito da Ada che urlava e fendeva l’aria con la lama, ma prima che lei potesse uscire dalla cucina mia madre si voltò ferina e spalancò la bocca in un rantolo. Con una zampata la colpì alla gola, recidendogliela di netto.
Ada crollò tra le mie braccia, tremava come un insetto schiacciato, i suoi occhi erano rivolti al vuoto e muoveva le labbra come se volesse dire qualcosa di importante, senza riuscire a sputare fuori altro che sangue.
Chiuse gli occhi, per sempre, il capo le si piegò in avanti come un ramo reciso.
Affondai le dita nei suoi capelli e la lasciai scivolare su una sedia. Le presi di mano il coltello. Mia madre mi fissava, ora gelida, sugli artigli scorreva il sangue di Ada.
Schizzai via da lì e corsi nel corridoio, seguito da un ruggito di mia madre. La sentivo galoppare e latrare dietro di me.
«Il mio bambino, non toccarlo!»
Precipitai nella stanza di Primo, lo trovai rannicchiato in un angolo, si stringeva le ginocchia ossute e tremava. Nell’oscurità, i suoi occhi da rettile mi fissavano implorandomi di risparmiarlo.
Li vidi esplodere come bolle appena saltai su di lui e gli affondai la lama nel cuore. Il grido di mia madre spazzò via fogli e libri.
Sfilandogli il coltello dal corpo provai un dolore lancinante al petto, un fiotto di sangue mi schizzò dalla bocca e scivolò sul volto esangue di mio fratello, sempre più bianco, sfocato, come le urla di mia madre che sfumavano via.
Crollai al suolo assieme a lui, rannicchiati fianco a fianco come fossimo ancora nel grembo materno.
Avvertivo le membra irrigidirsi e i passi di mia madre avvicinarsi, lenti ma pesanti. Si chinò a raccogliere il corpo di Primo, il suo respiro mi sfiorava il viso.
Lo prese tra le braccia e andò via, lasciandomi da solo al buio, disteso in quel sangue che avevo sempre ripudiato.
Speravo solo che mio fratello sopravvivesse – i battiti del cuore rallentavano, sempre di più, e il volto di Ada era vicino.
Sorrideva.
Per un attimo mi parve di sfiorarlo con le dita, ma non la vedevo più, non c’era più nulla, neppure il battito del mio cuore.
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