Testo di Edoardo Balacchi
Illustrazione di Micol Muranetto
Richiamo altre tre volte. Non è normale dover insistere tanto. Alla fine rispondono, dall’altro capo del filo c’è una tipa svogliata che mi parla probabilmente scrollando foto su Instagram o facendo le parole crociate.
Mi liquida con una raffica di “non so devo chiedere”, poi riappende mentre sto cercando di esporre il mio problema nel modo più ordinato possibile.
Richiamo. Il telefono squilla. Sento uno strano gorgoglio nella parete del bagno, poi un fischio.
Mi risponde di nuovo la tipa.
– Mi dica.
– Sì, ascolti. Sono Brando. Vostro cliente. La mia casa…
– Non so. Devo chiedere.
– Cosa cazzo deve chiedere? A chi?
– Le passo il reparto tecnico.
Una musichetta snervante mi getta nel limbo dell’attesa. Sento i pifferi e le trombette, poi la voce calda di un doppiatore fallito di mezza età che mi ringrazia per la pazienza.
Intanto la casa comincia a colare. Me ne accorgo perché all’improvviso fatico a spostare i piedi mentre giro per i corridoi. Ogni passo sembra incollarsi al pavimento. Mi accorgo, posando la mano sulle pareti, che dai muri sta uscendo una sostanza che ricorda il catarro e ha un odore sgradevole.
Tenendo il telefono incastrato fra collo e testa mi muovo faticosamente fino al soggiorno. Tocco ancora i muri, anche qui sembrano più umidi del solito.
– Reparto tecnico buongiorno. Come possiamo aiutarla?
– Sì, buongiorno. Sono Brando, vostro cliente. Vi chiamo perché ho un problema con la mia casa.
– È una casa biologica?
– Esatto, è una casa biologica. Ora le posso…?
– Quando sono stati ultimati i lavori?
– Non lo so, guardi…
– Ricorda il nome del tecnico collaudatore?
– No! Non ricordo niente, ok? Mi può stare a sentire un momento? Ho un problema urgente. La mia casa sta perdendo una sostanza…
– Se non ricorda il numero di pratica o il nome del collaudatore non la posso aiutare.
Scaglio il telefono contro una finestra bestemmiando. Lo osservo rimbalzare e cadere gommosamente sul pavimento.
Ora tutta la casa pare gonfia: i muri sono più levigati e unti del solito, il pavimento è inarcato, persino le gengive delle finestre sono arrossate.
Provo ad accarezzarla, non c’è altro che possa fare. La casa freme, manda un suono di sofferente gratitudine che mi frantuma il cuore.
Scusami. Le chiedo scusa per tutti i chiodi per i quadri, per i tappeti che ho disseminato dovunque pur sapendo che le danno prurito, per la scarsa igiene orale che ho sempre riservato agli scarichi del bagno e della cucina.
La casa si addormenta, alla fine, si acquieta. Decido di provarci. Chiamo il veterinario che mi aveva aiutato quando la casa aveva avuto quella brutta gastroenterite.
Cerco il suo contatto a lungo nel telefono, sembra scomparso. Alla fine lo trovo, fra i messaggi più vecchi. Lo chiamo e prego che risponda, contraendo le dita dei piedi nelle scarpe.
Dopo un tempo indecente dice: – Pronto?
– Dottore? Buongiorno, sono Brando. Si ricorda di me? La casa con la gastroenterite…?
– Certo, Brando! Mi dica, certo, – sento sferragliare in sottofondo. Immagino stia operando una casa infartuata o un garage stitico. Mi sembra quasi di vederlo, col camice sporco di grasso e di sangue, mentre s’infila in un comignolo irto di peli e muco.
– Mi scusi se la disturbo. Ho un problema abbastanza urgente. Da stamattina la mia casa continua a perdere un liquido colloso da…
– Di cosa odora?
Mi annuso le dita. Cerco le parole: – Ha un odore spiacevole. Direi di pesce e di naftalina, un misto.
Il dottore esita, sospira: – Dove si trova, adesso? È dentro la casa?
– Sì, sono in soggiorno.
– Esca subito.
– Esco? E dove vado?
– Non ha importanza, esca subito. Vada in giardino, vada da un amico. Io arrivo. Esca. Finisco una sutura e sono da lei.
Mi arriva dalla cornetta il rumore di una motosega o di un bisturi, seguito da un barrito furente.
Arrancando nel pantano che ricopre il pavimento raggiungo l’uscita. Guardo la mia casa negli occhi, in quelli che penso siano i suoi occhi: migliaia di opercoli neri che punteggiano il soffitto e luccicano al buio come piccole stelle nere. La guardo in silenzio, poi le sussurro che andrà tutto bene ed esco. Mi chiudo la mascella della porta alle spalle. Le accarezzo le vibrisse davanti all’ingresso, poi mi allontano.
Dopo qualche passo incerto mi ritrovo in giardino, da solo, e mi siedo su una roccia coperta di licheni gialli fra i ciuffi d’erba smagriti dall’inverno.
La casa vista da fuori sembra sempre preoccupante, forse per il respiro che viene pompato fuori in nuvole ostili dalle narici del tetto o forse per l’innesto scabroso delle radici ossee che s’inabissano nel terreno.
Stavolta però sembra tutto più rallentato, come se l’intero organismo della casa fosse sul punto di sprofondare in un letargo irreversibile.
Ad un tratto qualcosa cambia e le mura cominciano a lamentarsi. Non ho mai capito nulla della mia casa, ma adesso riconosco subito le note che emette stremando i suoi organi invisibili e intonacati. È un canto sinistro di morte che si propaga per tutti i sobborghi. Sembra un rumore oceanico e sommerso, pare che venga fuori da uno sfintere subacqueo che sta per esplodere.
Tutto pulsa, si contrae, s’irrigidisce: solo a quel punto mi rendo conto che anche le altre case del quartiere stanno cantando.
La strada intera mugolando butta fuori da porte e finestre i vicini che mi sono sforzato di ignorare per una vita intera: escono correndo dalle porte i vecchi che abitano al 28; il commercialista che ha lo studio al 35; una mamma sexy con un neonato stretto al seno. Ci troviamo tutti per strada, nel disagio sottile di un’intimità forzata, mentre il nostro quartiere pulsa e ronza.
Tutte le case de quartiere stridono e gridano come aragoste nell’acqua bollente, poi cominciano a staccarsi da terra. Le loro radici si spezzano o si divincolano dal terreno con schiocchi di tempesta e di tendini spaccati, le loro strutture ossee si dispiegano in forme difficili da comprendere. Hanno segmenti e stanze che pulsano come organi, aculei, esoscheletri ben coibentati, opercoli ciliati.
– Dottore? Che cazzo sta succedendo? Qui la casa…
La mammina all’improvviso mi abbraccia, sento il suo cuore e quello di suo figlio battere all’impazzata contro il mio. Profumano di ammorbidente e latte e casa.
È il commercialista a rompere l’idillio, come sempre. Ci indica con le sue dita contabili il cielo, dice qualcosa che non capisco.
Poi annuisco: – Se ne stanno andando.
Le case all’unisono si scrollano di dosso le tegole ed estroflettono lunghe ali membranose che sembrano fresche e dolenti come carne viva. Le muovono istericamente, prima di espellere con getti insensibili di diarrea bianca tutto il nostro mobilio e le nostre vite fatte a pezzi.
La mia vicina a quel punto comincia a singhiozzare, mentre il bambino piange e si contorce per liberarsi dalla sua stretta.
È con lo stesso rumore annichilente che le case, tutte insieme, si alzano in volo. La loro sincronia è una massa informe che oscura il cielo e ci sovrasta. È uno spettacolo assoluto che ci taglia il fiato: guardo la mia casa sollevarsi di una spanna e poi balzare più in alto di tutti gli alberi. Le sue zampe atrofizzate pedalano fra le nuvole, le sue narici sbuffano, i suoi pori si dilatano.
Quando è poco più di un puntino nel cielo si accartoccia come se qualcosa la stesse lacerando dall’interno e con una torsione inorganica si apre uno squarcio nel fianco, dove una volta c’era il mio garage: ci vomita addosso un divano, che schivo per un pelo, e qualche decina di libri dalle pagine impastate di muco lattiginoso.
– Torna giù, cazzo! Torna giù!
Il commercialista intanto si è gettato verso la sua casa proprio mentre si stava immergendo nel blu demente del cielo. Lo vediamo aggrapparsi alle radici e finire ingoiato dal nulla nell’attimo esatto in cui tutte le case sciamano.
Il vento ci getta a terra, il turbinio delle loro ali ci solleva e rigira nella polvere. Abbraccio il figlio della mia vicina, provo a ripararlo dalla pioggia di detriti e liquami ma è inutile, ci dibattiamo entrambi cadendo come insetti in una tormenta.
Quando è tutto finito provo ad alzarmi, anche se ho qualcosa di tagliente infilzato nella pancia. Sanguino ma non ho dolore. Davanti a me il quartiere è un filare di brufoli esplosi: ci sono i crateri delle case fumanti, le impronte delle loro fondamenta divelte e la memoria delle tubature recise che sembrano arterie nere tranciate dal terreno. Rigurgitano acqua e fumo, attonite, e pulsano. Io incespico, mi sposto incosciente come una meteora. Sono in un deserto di arti fantasma che ondeggiano e mi afferrano con la loro assenza. Sono le case, le nostre case che hanno lasciato impronte e reliquie del loro passaggio. Seguo così la scia di suppellettili vomitate dal cielo e mobili fracassati, sembrano portare verso sud. Forse è solo un caso, mi sto illudendo che esista una meta. Mentre guardo il terreno brullo muovo qualche passo e provo a tirarmi fuori l’oggetto duro che mi sporge dalla pancia: frugo nelle pieghe della pelle come se dentro ci fosse spazio per abitare, come se ci fossero ali pronte a dispiegarsi, poi con gli occhi passo in rassegna ciò che mi circonda, chiamo sibilando i miei vicini. Trovo solo distruzione. Alla fine guardo il bambino, a cui mi sto ancora aggrappando come se fosse una bambola o un salvagente. Lui sembra sereno, adesso ha pure smesso di piangere. Sta scrutando assorto il cielo con un dito in bocca, sbava. Sorride.
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