Testo di Ilaria Palomba Illustrazione di Rebecca Fritsch Editing di Pietro Emiliani
Il Nagual, invece, disfa gli strati. Non è più un organismo che funziona, ma un CsO che si costruisce. Non sono più atti da spiegare, sogni o fantasie da interpretare, ricordi d’infanzia da ricordare, parole da far significare, ma colori e suoni, divenire e intensità (e quando diventi cane, non andare a domandare se il cane con cui giochi è un sogno o una realtà, se è quella puttana di tua madre o un’altra cosa ancora).
Deleuze e Guattari, “Mille piani”
Diciamo pure che mi ero abituata a stare nel mucchio. Stare nel mucchio significava essere estratta da un gruppo. Si mangiavano patate fritte in olio di mais, si mangiava in modo sconsiderato. Stare nel mucchio significava estrarre dalla frittura un capello e ricordare Nagual, un capello di Nagual, un capello che solo Nagual avrebbe potuto avere perché Nagual aveva proprio quel genere di capelli che finisce in un cestello di patatine fritte mangiate da un mucchio di ragazze che hanno fatto bolla a scuola; bolla, noi diciamo bolla, Nagual diceva sega, era più vecchio.
Quando Nagual e io facevamo bolla andavamo al giardino bianco, restavamo tra i frassini, non mangiavamo niente, ci scrutavamo le mani, le leggevamo anche, e Nagual diceva: Sai, hai proprio delle belle mani, cioè, mani con linee curve lunghe, quando i segmenti si spezzano significa che succederà qualcosa. Di Nagual non sapevo altro: i suoi palmi non avevano linee, sembravano di cera, mani senza muscolatura, disepitelizzate, mani da malato terminale, ma Nagual non era malato.
Quando si stava nel mucchio Nagual veniva chiamato Alieno Scintillante. Può darsi che prendesse la cosa come un insulto ma il mucchio intendeva altro, Nagual non lo capiva. Nagual non capiva mai niente, aveva gli occhi troppo chiari per capire, viveva con un topo sulla spalla, bianco, come il giardino bianco. Quando eravamo tra i frassini Nagual evitava di baciarmi per non farmi salire il topo sulle spalle, per impedire che s’invischiasse ai capelli. Non avevo capelli neri lunghi come quelli di Nagual, chi ci vedeva insieme confondeva le identità: lui era incredibilmente donna, con quelle cinture e pantaloni di pelle e camicie trasparenti, il corpo striminzito da malato terminale; ma Nagual non era malato.
L’unica volta in cui provai a baciarlo, al giardino bianco, il topolino gli cadde dalla spalla, giù nel dirupo, nella gravina. Pensai al rumore che fa un corpo quando cade in una gravina. Sentimmo un sibilo, una deviazione di vento. Nagual non disse nulla. Lo ritrovai nel cortile di scuola che strappava articoli di giornale e foto di modelle vestite alla Vivienne Westwood. Si vede che possono permetterselo, beate loro, diceva, e non muoveva mai gli occhi.
Nel mucchio diciamo sempre che Nagual si è gettato dalla gravina ma nessuno ha trovato il corpo, così come non hanno ritrovato quello del topo.
Abbiamo pensato di andare al giardino bianco e gettarci per ritrovare l’Alieno Scintillante giù nel dirupo, ma dopo le patatine nessuna ha più voglia di muoversi. Il cortile della scuola vuoto ricorda l’ingresso di un cimitero, altre volte ci è sembrato un supermercato.
Nel mucchio dicono sempre che Nagual e io abbiamo un segreto infantile e vigliacco, un segreto irrispettoso e bastardo, un segreto che non permette al mucchio di capire cosa sia davvero successo al giardino bianco.
Nagual fumava molte sigarette, si toccava i capelli, diceva di sentirsi solo. A scuola, nei corridoi, le mani in tasca, non si curava degli sguardi, pensava in fondo fosse troppo intenso gestire tutti quegli occhi. Nel mucchio dicevano venisse da un luogo innominabile, mi chiedevano di rivelare qualcosa in più sulla sua esistenza e, quando me lo chiedevano, tremavo. Ma è uomo o donna?, dicevano. Tu sai realmente chi è Nagual? E ridevano. Nagual mi teneva sottobraccio, sussurrava: Devo andarmene, dovrai fare tutto da sola, ma non dirlo in giro. Ogni volta che cercavo di abbracciarlo Nagual non era più lì. Era altrove, non so dove, ma non con me. Qualche volta guardandomi allo specchio avevo visto riflesso il suo volto. Indossavo le sue cinture scintillanti e mi domandavo: Sei uomo o donna, dov’è che vuoi andare, cosa cerchi nel mucchio. Sei l’alieno o la macchia, il cestello di patatine o il capello nero. A chi appartiene l’ombra della tua ombra. Trovavo Nagual nella vasca in una nudità deforme, priva di organi sessuali, fatta solo di pelle chiarissima, buchi nei vestiti. Buchi ovunque.
Al giardino, vedo Nagual sul muretto: steso, immobile, ricoperto di bianco, odora di capelli bagnati ma i suoi capelli non ci sono più, assediati dai peli bianchi. Più mi avvicino e più appare sospetto: Nagual è ricoperto da una muta di topi bianchi, li sento squittire come sirene d’ambulanza; è immobile, i topi brulicano dentro i suoi occhi, nella bocca, popolano ogni foro. Se mi avvicino ancora posso svegliarlo, dirgli che i topi non esistono e quel giorno nella gravina non è caduto un bel niente, ma resto ammutolita dallo stridio dei topi - stridono non squittiscono, è come se urlassero - dal loro muoversi in muta, precisi, in frattali.
Me ne vado.
Nel mucchio dicono che Nagual si è ucciso per me, che sono stata io a incitarlo a lanciarsi, dicono che non mangerò più dal loro cestello di patatine, mi guardano e ridono ma ridono da topi.
Nel mucchio, all’ingresso di scuola, Nagual con una pelliccia bianca e tutte le ragazze e tutti gli insegnanti. Di colpo l’ingresso è gremito, affollato come un centro commerciale. Gli vado incontro radiosa, il mucchio è dall’altra parte, Nagual e io siamo così vicini, così vicini da coincidere. Mi guardano. Resto in disparte, invischiata al muro. Tra le mani ho il topolino bianco.
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