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Racconti | (s)Ex Machina


 


 

Testo di Matteo Romano e Chiara de Stefano

Illustrazione di Francesca Costa


 


Mi avevano rubato la macchina, per questo fui costretto a comprarne una nuova.

Il tizio della concessionaria mi mostrò queste ultime auto ibride. Blaterava che tra non molto le avrebbero costruite tutte così e che fossero efficienti e affidabili. Il che non mi convinse affatto, e finì per procurarmi solo un odioso mal di testa. Gli dissi che un pensionato come me preferiva qualcosa di più tradizionale.

Passammo in rassegna diverse macchine finché non fui io a indicargli una comunissima utilitaria nera che avevo scorto in fondo al salone. Lui s’illuminò sostenendo che facesse proprio al caso mio.

Ed ecco che conobbi la mia Lilly, in un modo così distaccato e insipido che ancora oggi mi fa provare un’immensa vergogna. Non avrei saputo dire sul momento se fosse stata una fortuna o una disgrazia, ma quella era la mia Lilly. Sarebbe stata solo Lei al mattino, con la brina ancora incrostata sul parabrezza e Piccola alla sera, quando il buio è così immenso da rendere persino l’amore – tremenda sciagura che ci divora – un sentimento effimero e minore.

Quando aprii la portiera fui investito da una molesta fragranza di nuovo: mi pareva come di pesce chimico. Diedi un’occhiatina: interni piuttosto spartani, ma almeno i sedili erano in pelle. Ma non avevo grandi pretese, d’altronde mi serviva solo un’auto per spostarmi da A a B.

Così firmai il contratto e la comprai, deciso e ormai povero, perché Lei, la mia Piccola Lilly sarebbe stata tutta la mia ricchezza.

 

 

Una sera decisi che era arrivato il momento di sverginare la macchina, alla mia maniera. Guidai sulla tangenziale per qualche chilometro e rallentai non appena adocchiai una ragazza che bighellonava sul ciglio della strada, fumando e ciondolando le sue belle chiappone nere. Quanta carne sul banco! Tenera e docile, pronta per essere squarciata dalla mia lama appuntita.

Quella mi salutò cinguettando, si affacciò nell’abitacolo e prese a cianciare a vanvera. Quando non ne potei più, la interruppi per domandarle la sua tariffa. Trenta per un pompino e cinquanta per il servizio completo: ragionevole.

Ebbi l’accortezza di stendere una coperta sui sedili posteriori. La puttana ridacchiò e io le lanciai un’occhiataccia. Accarezzandomi il ginocchio disse che si sarebbe fatta subito perdonare. Benone! Ero stufo delle sue chiacchiere e del suo alito di posacenere, volevo soltanto chiavare in santa pace.

Me lo tirò fuori, si sputò la mano e cominciò a smanettarlo energicamente.

Dai, vedi di muoverti, io ti pago! Accarezzalo, strofinalo come si deve, avanti. Ma che fai?! Non così! Devo proprio insegnarti tutto io?

Trascorse qualche minuto, ma niente da fare: il mio vecchio uccellaccio non voleva proprio drizzarsi. E neppure fissare insistentemente le enormi tette della puttana, appollaiate sulle mie gambe, riusciva a scuotermi. Lei, incollandomi addosso uno sguardo pietoso, mi rassicurò dicendomi che presto sarebbe diventato duro. Le suggerii di succhiarmelo, in questa maniera avrebbe taciuto.

Prendilo, ingoiami. Mmm ecco… così, fino in fondo. Brava la mia negretta.

Ansimavo come un animale che insegue la propria preda e, mentre la puttana lavorava con la lingua, fino a sbrodolarmi di saliva tutto lo scroto, fiutai profondamente il suo intenso odore mischiato a quello dell’auto. Che schifo! Quella vaga sensazione di eccitamento si era adesso trasformata in uno schifoso senso di nausea, e quasi senza accorgermene finii per vomitare addosso alla puttana. Ancora più schifato la spinsi fuori dalla macchina, che non volevo si sporcasse in alcun modo e ripartii lasciandomi alle spalle quell’incapace strepitare come una pazza.

Proseguii per un po’ e infine accostai, furioso e amareggiato per quella tremenda esperienza. Quando mi calmai, decisi di soddisfarmi da me. Mi abbassai le mutande, chiusi gli occhi e iniziai a toccarmi. In un baleno mi divenne duro e pulsante. Poi mi concentrai sul mio sedere, che sprofondava nel morbido sedile di pelle. Presi a molleggiare e a sfregarmi un pochino, senza però smettere di toccarmi. Scivolavo col sedere sudaticcio sul sedile, avanti e indietro. Quel contatto, pelle contro pelle, mi trasmise un piacere inaudito che tentai addirittura di amplificare. Respiravo l’olezzo della macchina che in quel frangente mi parve perfino estasiante. Misi una mano sul cambio e sentii il sangue pomparmi tendendo al limite il mio cazzo. Continuai a masturbarmi, a molleggiare e a sfregare il culo con ancora più foga. Emisi un gemito e quando spalancai gli occhi vidi il parabrezza imbrattato dal mio liquido biancastro e appiccicoso.

Calmati i miei istinti, ritrovai il senno e capii che il merito di quel piacere era da attribuire tutto alla mia nuova auto. Alla mia Lilly. E da quel momento niente fu più lo stesso, né per me né per lei.

 

     Mi dissi basta con le puttane e con le donne in generale, per le quali ormai non provavo alcuna attrazione. Tanto non avevo mai avuto troppa fortuna con loro. Buone a nulla, coi loro stupidi sentimenti e il loro incessante ciarlare rovinano sempre tutto. I loro fardelli non mi interessavano, il mio, fatto di carne, pesava già abbastanza. Ma poco male: avevo la mia dolce piccola Lilly, nella quale mi masturbavo fino ad inebriarmi i sensi. Mentre venivo, guaivo disperatamente, come un cane vessato e bastonato,   rompendo il silenzio dell’abitacolo, dove mi sentivo così al sicuro, immerso e ormai avvinto da quel suo immondo e irresistibile odore.

Quando uscivo me ne stavo lì a soppesarla. Accarezzavo la sua fredda carrozzeria tentando di capire quale mistero nascondesse. Era bellissima, smussata e sinuosa nei punti giusti, proprio come una donna formosa.

Ogni momento della mia giornata era scandito dal pensiero della mia Lilly, dal suo richiamo e dal desiderio implacabile di accoccolarmi sul suo sedile. La sognavo la notte e di tanto in tanto mi svegliavo per controllare che stesse bene. Non di rado capitava che decidessi di appisolarmi proprio lì, dentro di lei. 

Una sera mi chinai all’altezza del suo muso, la sfiorai col naso, la baciai e infine leccai tutta la sequenza alfanumerica della targa, MR314CD, avvertendo una sensazione che mai avevo vissuto in tutta la mia derelitta esistenza.

 

Così lei era sempre lì nei miei occhi, suoi fanali, nel mio corpo, suo motore, sulla mia pelle, sua vernice e nella mia anima. E per far sì che me la invidiassero, che tutti sapessero ciò di cui io solo ero padrone, la portai in giro per le strade della movida. Ma le occhiate di quegli idioti ubriaconi, le loro chiappe posate sul cofano e i bicchieri sul tettuccio della mia Piccola, erano intollerabili, e  quel sentimento di invidia divenne presto gelosia. Decisi allora che Lilly sarebbe rimasta parcheggiata nel mio garage, lontana da tutti, coperta da un telo. E la mia Lilly, in fondo, non aveva bisogno di nessun altro se non di me. Saremmo usciti solo per motivi indispensabili e urgenti.

Ma si sa, nessuna coppia è perfetta. Anche noi litigammo, e mi sento morire solo a ripensarci. Era stata colpa del tagliando.

Il meccanico si mise a palpare Lilly ovunque, con le sue manacce unte di grasso, e lei non oppose la minima resistenza. Si fece ravanare per bene, perfino nella marmitta! Ero una belva. Dai giri del suo motore capivo quanto le piacesse farsi schiacciare dal tipo tutto l’acceleratore, in profondità. Alla fine, quel bastardo mi disse ammiccando che era tutto okay e che avevo proprio una bella macchinetta. Mi trattenni dal tirargli una testata sui denti, ma, una volta a casa, con Lilly fui spietato.

Sei contenta adesso, eh? Ma che cazzo fai?! Io ti amo e tu mi fai questo? Sei solo un ammasso di ferraglia senza cuore!

Tirai un pugno allo specchietto retrovisore che s’incrinò. Il mio sangue colava macchiando qua e là l’abitacolo. Piansi, scongiurandola di amarmi, e dopo essermi calmato le chiesi perdono ammettendo che era tutta e solo colpa mia: l’avevo costretta io a sottoporsi al tagliando. Le giurai che non sarebbe capitato mai più.

Facemmo pace, lasciandoci per sempre quel deplorevole episodio alle spalle. Lilly si stava comportando bene, faceva la brava bambina, era tornata quella di un tempo, tant’è che una sera decisi di premiarla e concederle un’uscita a sorpresa. 

Decidemmo di fare una lunga corsa in città, poi sulla statale, buia e deserta, tutta per noi. Lilly macinava chilometri su chilometri sotto il mio comando, il vento l’accarezzava, ne ero quasi geloso, e il catrame rovente si piegava al nostro passaggio.    

A un certo punto controllai il livello del serbatoio e dopo qualche chilometro ci fermammo in una stazione di servizio per fare rifornimento. A quell’ora non c’era anima viva.

Svitai il tappo del serbatoio e infilai la pompa. Una volta finito, non riavvitai il tappo, presi ad accarezzare la filettatura attorno all’orlo del serbatoio. Mi accostai per annusare a pieni polmoni la benzina, poi infilai indice e medio nel serbatoio e cominciai a masturbare Lilly. Qualche istante dopo mi ritrovai con la più grossa e dolente erezione che avessi mai avuto. Ero talmente eccitato che avrei potuto usarla come un cric per sollevare Lilly. Non ci pensai su: mi strappai le mutande di dosso, mi avventai come un avvoltoio sulla carcassa di Lilly e penetrai la sua fessura col mio arnese, assestando un possente colpo di reni. Man mano che la penetravo, immaginavo già di riempirla di tutto il mio sperma, roba di alta qualità! Lilly dondolava sui fianchi e le sue sospensioni cigolavano come se avessero dovuto cedere da un momento all’altro.

Ero certo che saremmo venuti nel medesimo istante. Ma proprio quando giunsi al culmine, udii il rombo di un’auto. Mi voltai: i carabinieri! D’istinto, lo tirai fuori spruzzando inevitabilmente sulla portiera. Me lo nascosi nelle mutande e mi pulii sui pantaloni.

I carabinieri scesero dalla macchina, mi domandarono cosa stessi facendo e io risposi: rifornimento. Mi sondarono sospettosi, dopo mi ordinarono di mostrare loro i documenti. Obbedii e restai sul sedile in attesa che terminassero il controllo. Ogni tanto mi lanciavano occhiate, bisbigliavano tra loro. A un tratto, uno dei due comunicò con la centrale usando la radio. Sussurrai a Lilly che sarebbe andato tutto bene. Ma sudavo e tremavo. Forse mi avrebbero denunciato per atti osceni in luogo pubblico e Lilly sarebbe stata confiscata e rinchiusa in un deposito giudiziario. Allora lo feci: la misi in moto e fuggimmo a tutto gas.

La sirena urlava alle nostre spalle e la vedevo rinfrangersi minacciosa negli specchietti. Quei porci maledetti ci stavano ancora alle calcagna. Spinsi l’acceleratore della mia Lilly, quasi a volerle far male, ma a una curva troppo stretta persi il controllo e sfondai il guardrail. Per qualche momento mi sentii sospeso nell’aria, quello era stato il momento più bello che avessi avuto con lei. Il nostro amore era finalmente rincorso e noi eravamo così leggeri da fluttuare. Infine, lo schianto, il sangue, l’intrico delle lamiere. E le tenebre.

 

Mi svegliai strillando e dolorante su un letto d’ospedale. All’infermiera domandai dove fosse la mia Lilly, ma quella non capì, disse di non saperne nulla, che vaneggiavo e che dovevo stare calmo perché mi ero appena risvegliato da un lungo coma. Ma ero folle, mi dimenavo, ringhiavo. Mi legarono con le cinghie e mi sedarono. La notte mi svegliavo urlando il suo nome.

Solo dopo venni a sapere che era morta nell’incidente. Persino la morte l’aveva tentata più di quanto avessi fatto io. Ma Lilly sarebbe stata MIA per sempre, fredda e senz’anima.

 

E adesso cosa ne sarebbe stato di me?




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