Testo di Pietro Bocca
Illustrazione di Letizia Limber Veiluva
Dalla prospettiva della mia anima in cenere che esalava verso il soffitto, caracollava fra parete e parete e scivolava sulle piastrelle di marmo dove si condensava il vapore della vasca bollente, il mio cazzo sembrava una bara galleggiante abbandonata a un’isola di schiuma. Niente che Cecilia non avesse visto, certo: eppure lì in alto, vicina alla ventola che assorbiva la foschia, al cospetto di quel galleggiante idrofobo che era il mio pube, mi sono guardata da fuori. E mi sono detta: questa carne che ho in mezzo alle gambe è una vera disgrazia.
Quando ero piccola, mio padre mi leggeva racconti di viaggi nel tempo e mia madre mi portava a giocare a calcio.
Quando pioveva forte sul campo confondevo i miei compagni di squadra con gli avversari e calciavo la palla lontano, con forza, senza guardare verso chi stessi mirando.
Nei racconti di viaggi nel tempo c’era un uomo che faceva girare l’orologio al contrario per ammazzare un tiranno, salvo poi scoprire, tornato al presente, che le cose erano cambiate in peggio, oppure che ogni cosa si era compromessa in un bosone minuscolo, perché l’uomo aveva infranto la legge del viaggio nel tempo, senza sapere – senza conoscere il paradosso del nonno.
Dall’alto il mio pelo era come i corridoi di plastica che dividono le corsie della piscina comunale, separava le acque. Le bollicine di schiuma nuotavano lungo i miei stacchi di carne, palingenesi delle montagne sull’acqua – le mie gambe in superficie, i piedi lontanissimi. Le piastrelle turchesi attorno alla vasca bianca e dorata, solo i piedi della vasca dorati, o di ottone, che la reggevano: il colore turchese che ricordava l’acqua salmastra dove si bagnava il mio corpo gigante, il colore turchese che copriva pareti, pavimenti e soffitto. Dall’alto sembravo più bella.
Il portiere della nostra squadra si chiamava Nikola, con l’accento sulla i, il terzino Maicol, la punta Guillermo. Gli altri nomi li ho dimenticati, non ero amica di tutti. C’era un racconto in particolare che mi piaceva molto, più di altri, perché il viaggio nel tempo riusciva, e anche se il protagonista non vinceva il mondo era salvo, mentre in quasi tutti i racconti di viaggio nel tempo succede qualcosa di eterno e triste, che cambia per sempre la vita degli altri. Succede qualcosa che vuole insegnare una morale, o che vuole spiegare come funziona la scienza.
A me non interessava. A me interessava che mio padre leggesse questo racconto, quello che mi piaceva di più, e che poi spegnesse la luce, e mi lasciasse nel mio letto da bambino, mentre sapevo che lui e mia madre facevano l’amore nel loro letto da adulti. Così sapevo che si amavano.
La ventola attraccata al soffitto faceva il respiro di chi ci dorme affianco. Io le rimanevo aggrappata, lontana dal mio corpo. L’acqua bollente, se mi guardavo dall’alto, mi arrossiva la cute all’altezza dei bronchi e dell’inguine, e la temperatura rimbalzava impazzita fra le pareti di marmo.
Mi guardavo le guance, le orecchie, i capezzoli, il cazzo, la bara: le gambe, le dita spezzate, le ginocchia. Le caviglie come piccoli tumori alla sinistra e alla destra dei piedi. E perdevo il respiro.
Nell’ultima partita di calcio che avevo giocato, Nikola aveva subito due gol e Guillermo ne aveva segnati tre. Quando avevamo esultato tutti insieme, il sudore che evaporava dal cranio e dalle braccia di tutti si era mischiato alla pioggia dicembrina come un fumo criogenico, tossico, che ci contagiava la pelle, mentre sdraiati con le gambe scomposte e le schiene piegate ci abbracciavamo per sentire i nostri corpi vicini. Io ero al centro del mucchio con i capelli intrecciati agli scarpini di Maicol, avevamo vinto, ero felice, mi ero sentita come se fossi intera. Mia madre mi aveva riportato a casa suonando il clacson a ritmo di festa. Mio padre mi aveva comprato la pizza quella sera, e poi mi aveva letto il mio racconto di viaggio nel tempo preferito, e aveva scritto sul calendario della cucina, di notte, così me ne sarei accorta solo al mattino: «Oggi Stefano e i suoi amici hanno vinto tre a due».
Qualcuno bussava alla porta, ma ero troppo lontana. Guardavo dentro alla ventola bianca. Le mura si facevano strette, occluse dall’acqua verticale, ovunque, dall’acqua che bolliva, che rimbombava fra le pareti turchesi, che strabordava dalla vasca e si alzava, copriva il pavimento, il lavandino e lo specchio, il mio corpo addormentato nell’etere che galleggiava e si gonfiava fino a esplodere, con la pelle blu. Guardavo giù, dal porto d’attracco della ventola, a vedermi in abisso.
Qualcuno bussava alla porta che io-
Un uomo perdeva la moglie, i genitori, il lavoro, il desiderio di vivere fra gli uomini e di vivere nel mondo. Era un fisico importante ma sfortunato, che lavorava in un centro europeo di ricerca sperimentale, condannato dal caso a non avere più niente da perdere. Così il fisico, lo scienziato, decideva di fare qualcosa di assurdo: di entrare nel centro di ricerca ma di notte, da solo. Preparava un piano per accedere alla stanza più segreta dell’edificio, la stanza all’interno della quale aveva lavorato per anni, ma di cui non aveva la chiave, da quando era stato licenziato. Per rimediare, faceva innamorare una collega triste e ingenua – così otteneva la chiave e tutto era pronto.
L’uomo attendeva tre giorni. Era dicembre: i fisici sciamavano di settimana in settimana verso i loro alveari domestici. La notte di Natale, mentre la neve scendeva a fiocchi, lo scienziato usciva di casa con la chiave in pugno, ed entrava indisturbato nel centro di ricerca.
Qualcuno bussava alla porta, guardavamo in due il pomello incastrato dai giri di chiave, io sulla ventola e io nella vasca. Eravamo io – un involucro di carne contorto sul bordo vasca per guardarmi alle spalle perché toc toc, bussava qualcuno, e sempre io, che levitavo assorta nella distanza, con la ventola a farmi da boa. E ogni venti secondi di nuovo toc toc.
— Stefano?
Lo scienziato aveva rinunciato a tutto. Chiedeva solo un regalo, un regalo di Natale in microparticelle: chiedeva di non essere nato. Però, essendo terrorizzato dalla morte, aveva scelto di chiudere il cerchio servendosi dell’oggetto dei suoi grandi studi, e dei suoi amari rimpianti.
Quando la chiave apriva la porta della stanza segreta, l’uomo guardava l’insieme dei pulsanti luminosi e delle leve da fantascienza, le fibre in carbonio e i metalli a specchio: di fronte a lui stazionava l’unica macchina del tempo esistente. Lo scienziato pensava di sapere cosa stava facendo: non voleva semplicemente uccidersi, voleva scomparire dai registri delle possibili esistenze. Il suo piano, un piano terribile, era di tornare indietro nel tempo e di ammazzare sua madre, trovando così una condanna all’oblio.
Le mie due metà nel bagno dove la vasca debordava, e una voce dall’altro lato del chiavistello.
— Stefano devi uscire immediatamente, la macchina sta partendo, gli invitati sono già lì, siamo in ritardo, siamo in grosso ritardo, ti aspettano tutti, cosa stai facendo, cosa stai facendo, esci dalla vasca, apri la porta, Stefano, — mia madre prendeva fiato, — ho stirato la camicia, tuo padre è disperato, devi mettere la cravatta, tuo padre sale in macchina senza di te se non esci, apri la porta…
Dal punto di vista della mia anima, appesa come foglie d’autunno alla ventola, nessuna parola era una parola. Fra le mura turchesi suonava il timbro materno.
— Ma perché ci stai facendo questo? Perché fai questo a me, a tuo padre? Ti stiamo aspettando, noi, ti stanno aspettando tutti. Stefano: perché fai questo a me, che sono tua madre, ma soprattutto perché fai questo a Cecilia? A Cecilia che ti ama?
E lo scienziato si trovava scaraventato nel fulgore meccanico degli anni Trenta, e poco distante intravedeva sua madre, giovane e bella, che passeggiava fra le vie di una metropoli. Poi lo scienziato vedeva suo padre, giovane e bello, mentre comprava del pane nella stessa via dove passava la futura moglie, la futura madre.
Non si conoscono ancora, pensava lo scienziato del viaggio nel tempo, e dalla tasca interna della giacca estraeva una rivoltella carica di proiettili, perché in quel momento, o di lì a pochi istanti, i suoi genitori si sarebbero conosciuti per la prima volta, e sarebbe stato amore a prima vista: l’inizio degli incroci sentimentali che avrebbero portato alla sua nascita. A passo deciso, con la mano destra a reggere la rivoltella e la sinistra a smuovere i passanti, l’uomo varcava la folla giusto in tempo per vedere i suoi genitori guardarsi.
E premeva il grilletto.
Pensavo: mia madre non ha capito granché della mia vita, di me, di me stessa: di Stefano. Cecilia mi amava? Sì, Cecilia mi amava e le piaceva toccarmi, parlare con Stefano, che ero io. E quindi?
— Ti prego, ti supplico, esci dal bagno, gira il rubinetto che l’acqua è impazzita, stai allagando l’appartamento, Stefano, esci-dal-bagno, ti prego… Signore mio aiutami, devo chiamare Cecilia, il matrimonio…
Pensavo a mio padre: era già salito in macchina, o forse assisteva in silenzio a mia madre che si decomponeva come fango, seduta di fronte alla porta del bagno.
La folla urlava e si disperdeva a sciame fra le vie della metropoli. Il colpo di pistola era stato un tuono. Lo scienziato, con in mano la rivoltella che esalava ancora un alito di fumo, non faceva in tempo a reagire agli eventi – e veniva immediatamente atterrato e bastonato da due poliziotti. Una coincidenza sfortunata faceva sì che uno dei colpi dei poliziotti lo uccidesse sul posto, ma non prima che i suoi occhi disperati avessero constatato il fallimento del suo piano: mentre il proiettile viaggiava verso sua madre, verso la donna che sarebbe stata la sua futura madre, era successo che un signore di mezza età l’avesse coperta, e ci avesse lasciato le penne. La futura madre e il futuro padre dello scienziato si erano chinati sul corpo esanime dello sconosciuto, e per la prima volta si erano rivolti la parola.
Da lì, si sarebbero amati per sempre.
Questo, diceva mio padre, chiudendo il libro di racconti di viaggio nel tempo, questo è il principio di autoconsistenza di Novikov. Se una cosa è, allora quella cosa è, e sarà, e il tentativo stesso di cambiarla viaggiando nel tempo finirà per diventarne l’origine involontaria. Niente più paradossi del nonno, Stefano.
Mio padre spegneva la luce e andava a dormire. In un angolo della stanza c’era il mio completino da calcio ancora sporco dall’ultima partita, con i calzini bianchi, e io che sognavo sotto le coperte pensavo allo scienziato, e al fatto che avrebbe dovuto volersi più bene.
Non bussava più nessuno. Sono scesa piano dalla ventola, a gocce, come pioggia, e sono tornata vicino al mio corpo. Sul filo dell’acqua soltanto il mio viso e parte della testa, che sembravano parti del profilo di un crepaccio, e intanto l’acqua colava dal rubinetto e dalla vasca, fino al pavimento, fino a cercare riparo nel resto dell’appartamento. Ogni cosa era natura. Io ero natura. Sul mio viso concreto – isola nella vasca da bagno – ho visto un sorriso, un timido invito.
Così ho deciso di tornare.
Mentre mia madre era in strada a parlare al telefono con Cecilia, che piangeva, e mio padre sedeva poco distante con la mano sulla fronte e gli occhi chiusi (la macchina era spenta e le chiavi appoggiate sul sedile in pelle), mentre la Terra ruotava su se stessa e intorno al Sole, mi sono abbracciata e mi sono voluta bene, tornando intera.
Ho chiuso il rubinetto, ho fermato l’acqua, di nuovo in piedi. Non ho pensato al mio corpo, a mio padre, a mia madre, al gioco del calcio che ho dimenticato, ai racconti di viaggio nel tempo, al matrimonio con Cecilia, al turchese, alle onde dell’acqua che saliva a marea, allo scienziato. Alla ventola da cui l’anima era grondata a gocce. Non ho pensato più a niente.
E sono uscita Serena dall’acqua.
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