Testo di Graziana Patanè
Illustrazione di Maria Luisa De Nola
Editing di Yuri Sassetti
Mentre parla al telefono, dev’essere seduta su una delle sedie di finta pelle che ha voluto comprare tre anni fa per sostituire quelle vecchie, un regalo del matrimonio di trentadue anni prima. Bisogna pur cambiare qualcosa ogni tanto, aveva detto un giorno, costringendomi in uno di quei negozi che vendono arredamento, non ricordo più se fosse l’Ikea o Maisons du Monde.
Ma da quando la conosco non ha mai cambiato posizione durante le telefonate, prima con il cordless, poi con il cellulare, seduta nella sua cucina in cui entro soltanto per mangiare o prendere un bicchiere d’acqua, rivolta verso la tv perennemente accesa di cui abbassa il volume mentre parla — le immagini sfilano mute sullo schermo — e lei, appoggiata allo schienale di legno delle vecchie sedie prima, alla finta pelle di quelle nuove adesso, parla allungando il braccio libero sul tavolo, rimasto uguale perché mi sono rifiutato di cambiarlo, sebbene lei avrebbe voluto. Si è dovuta accontentare delle sedie e del forno che funzionava male, inutile ripararlo. Enrico ne aveva suggerito la sostituzione e ancora Enrico aveva dovuto convincermi, io che non vedevo la necessità di quei cambi.
Fu lei a chiedergli di parlarmi e lui accettò, seppur controvoglia, perché sapeva che non riesco ad ascoltarla. Da quando aveva iniziato ad avere dei ricordi, ne aveva soltanto di me che, a ogni sua nuova richiesta, alzavo le spalle e scappavo in salotto, mai di un dialogo tra noi, così mi ha confessato un giorno Enrico, anche se mi dispiacque che in quell’occasione avesse usato quel verbo, scappare. Non aveva compreso che le mie non erano fughe, ma lo sforzo di mantenere un equilibrio. E mi chiese, sempre in quell’occasione, se fosse esistito un passato diverso, perché per quanto provasse a tornare indietro trovava me di fronte a un’altra tv davanti cui non aveva mai visto lei, come se per un accordo segreto avessimo deciso di spartirci i territori di casa e, anche se avevo il permesso di entrare nella sua cucina e guardare la sua tv, lei di sera non metteva mai piede in salotto.
Mai in salotto la sera, dove la tv che accendevo rientrando dall’ufficio restava accesa anche quando mi spostavo in cucina. Tornavo poi per cercare qualche film di cui fino a un anno fa non conoscevo il finale perché mi addormentavo sempre nel passaggio da una metà all’altra, durante la pubblicità che divide i due tempi, e sul divano trascorrevo gran parte della notte, a meno che qualche rumore procurato da Enrico al rientro — usciva spesso la sera come fanno i giovani — non finisse per svegliarmi e decidessi di spegnerla, andando a letto accanto a lei che già dormiva.
Lei appoggiata allo schienale di finta pelle delle sedie nuove, le dita che tamburellano il tavolo, o afferrano qualche pelucco o briciola di cui si è accorta guardando il maglione infeltrito, da casa, quello che ormai toglie soltanto per andare a fare la spesa — poche le altre occasioni che la vedono impegnata al di fuori della cucina in cui scorre la sua vita —, parla al telefono con la sorella che vive a mille chilometri, l’amica che si trova nella stessa città, ma con cui riesce a vedersi giusto quattro o cinque volte l’anno, qualche vicina, e da un anno con Enrico, ovvero da quando lui è andato via, per lavoro, un lavoro che non gli ha lasciato più il tempo per vivere o venirci a trovare. Una scelta che lei non ha compreso, trasferirsi altrove, lontano, nonostante l’appartamento che gli avevamo comprato poco tempo prima, proprio sopra il nostro. Quella scomparsa improvvisa deve esserle sembrata simile alle mie fughe, come le chiamava Enrico, e da allora ha l’abitudine di telefonargli tutte le sere alle 19:00.
Aspetto lo squillo, disteso sul divano blu scelto tramite consiglio di un giovane commesso e avevo pensato, vedendo il ragazzo, che avesse l’entusiasmo tipico dei principianti o dei bambini. Gli inizi entusiasmano sempre, ancora lontani dal finale verso cui ci muoviamo, ancora inconsapevoli che qualunque passo e decisione, bivio o svolta, qualunque risata o dolore, telefonata a cui decidiamo di rispondere o divano che scegliamo di acquistare, ci porteranno tutti nello stesso punto, dentro una bocca che si aprirà per inghiottirci. Una bocca che ci attende, a cui nessuno può sottrarsi, come Enrico non ha potuto sottrarsi al lavoro che non gli ha lasciato più il tempo per vivere, se non per pochi minuti che lo riportano indietro, a ricomparire nel ruolo di figlio, durante la chiamata di cui conosco l’orario — le 19:00 da un anno. L’aspetto sul divano su cui ogni giorno ritorno puntuale come il figlio che, dopo aver premuto il tasto di risposta, inserisce il vivavoce senza salutare la madre, appoggia il cellulare di fianco e resta a fissare il soffitto, all’interno di un appartamento rimasto vuoto se non per il divano blu, e mentre lei parla lui l’ascolta senza dire nulla.
E io come al solito sono seduto di là, in salotto, questo dice lei a Enrico. Mi ha sentito rientrare e accendere la tv e prima di chiudere — è tempo che lei cominci a preparare la cena — raccomanda al figlio, da un anno ogni sera, di venire a trovarci presto: non può lavorare soltanto, bisogna anche vivere e il lavandino del bagno ha anche preso a gocciolare. Sarebbe il caso che fosse lui a parlarmene, convincermi a chiamare un idraulico, sostituirlo. E lui le risponde con un’unica parola, un sì necessario per mantenere l’equilibrio in un figlio al di fuori, lontano, ma comunque in questo mondo, che prima o poi tornerà a parlarmi.
Mentre la immagino alzarsi dalla sedia di finta pelle, mi alzo dal divano. Chiudo la porta, scendo le scale, apro la porta al piano di sotto e mi siedo davanti alla tv già accesa, nel salotto in cui lei non mette mai piede la sera, attendendo che mi chiami per cena, prima di tornare a cercare un film che guarderò per intero, senza più addormentarmi nel passaggio da una parte all’altra. Perché Enrico potrebbe far ritorno in qualunque momento. Deve parlarmi, e io lo aspetto.
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