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Racconti | Storia da Edimburgo



 

Testo di Davide Lepore

Illustrazione di Simone Paesano

 


Entrai nel bar e mi diressi al bancone. In pochi istanti il freddo che mi aveva accompagnato da fuori cominció a sciogliersi nel tepore del locale. Perfino l’illuminazione lì dentro faceva pensare al calore. Niente neon e cagate moderne varie: tungsteno vecchio stile, la luce che non vuole venderti niente, ma solo darti il benvenuto. Mi resi conto che quella era la prima volta che entravo nel Dragonfly da solo. Consideravo il luogo come una seconda casa, eppure tra me e quel locale non ero mai riuscito ad accorciare le distanze e liberarmi del tutto dall’ansia sociale. Avevo sempre trovato rifugio nella presenza degli amici, mai che mi fossi sentito a mio agio e presentarmi per il solo gusto di andarci.

Quella volta dovevo essermi colto di sorpresa. Forse le mie gambe si erano messe in cerca di un posto sicuro, senza avvertire il resto del mio corpo, che era troppo intento a scervellarsi alla mancanza d’idee per accorgersi che ero già nel locale. O forse le mie gambe sapevano qualcosa che a me ancora sfuggiva. Magari avessero potuto raccontarmelo quel qualcosa, almeno avrei avuto da scrivere.

Carmine era dietro il bancone ad asciugare bicchieri. Come una sorta di tic, i bicchieri che non toccavano liquidi da mesi finivano e rifinivano tra le sue grinfie armate di straccio per essere asciugati. Forse la cosa lo aiutava a passare il tempo, a scaricare la tensione. Lo capivo. Era lo stesso per me. Solo che io soffrivo del tic opposto: per scaricare la tensione io i bicchieri dovevo bagnarli. Col whiskey, di solito, mi accontentavo però anche di una pinta qualsiasi e, in casi estremi, perfino di un po’ di vino rosso. Appena asciugavo il bicchiere sentivo il bisogno di bagnarlo nuovamente. Cosí finché rimanevo cosciente. Mi ripetevo che la cosa aiutava con la scrittura, ma quell’alibi non reggeva piú da un po’ di mesi. Gola e bicchieri non avevo problemi a bagnarli, ma quando si trattava d’inchiostro la pagina restava piú asciutta d’un deserto. Ero arrivato al punto di bere solo per ammorbidire il bianco accecante delle pagine vuote.

Carmine non s’era ancora accorto della mia presenza. Lo osservai, alto e curvo come un punto interrogativo. Anche cosí inarcato mi superava in altezza di almeno una spanna. Non c’era da sorprendersi che lo chiamassero ‘il Gigante’. Mi vide e mi salutó con un cenno della testa. Nel locale c’eravamo solo noi due ed andai ad occupare uno degli sgabelli al bancone. Non mi ero mai seduto al bancone, ma quella sembrava una sera di novitá e seguii l’istinto.

"Cosa ti do?"

"Whiskey"risposi.

"Preferenze?"

"Fai tu"

Lo seguivo con lo sguardo mentre mi versava da bere in uno dei bicchieri su cui aveva sfogato la sua mania. Non sembrava sorpreso dal fatto che fossi lì da solo, ma ero certo che qualche domanda se la stesse ponendo. Non eravamo abbastanza in confidenza perché le ponesse direttamente a me, peró, anche se da un po’ di tempo avevamo aumentato di qualche secondo il tempo speso a chiacchierare. Era stata la storia che avevo ambientato al Dragonfly, la sua tana, a fare breccia nella sua scorza da scontroso e schivo barista. Quando mi chiese di stamparla per esporla nel locale fu lui a fare breccia nella mia, e ci avvicinammo un po’ di piú al definirci amici. Il Gigante mi passó il bicchiere e mi chiese

"Allora, scritto qualcos’altro di interessante?"

Presi un sorso e scrollai le spalle, pronto ai soliti convenevoli sul blocco dello scrittore, sulla pagina bianca, sul “mi serve un’idea”. E invece non dissi nulla, come se ogni energia fosse evaporata d’improvviso; non avevo voglia di mentire, ma neanche avevo voglia di aprirmi. Mi limitai a fissare il bicchiere davanti a me.

"Ti ricordi di quando andai ad Edinburgo?" mi chiese d’un tratto, piegandosi verso di me ed appoggiando i gomiti sul bancone.

Inarcai le sopracciglia, colto di sorpresa dal cambio di argomento. Mi limitai ad annuire piano. Lui mi fece un sorriso di approvazione.

"Andai da solo. Quattro dei ragazzi qui avrebbero voluto unirsi a me, ma alla fine decisi di partire da solo, senza preavviso. Lo feci d’istinto, quasi sapessi che lì ci fosse qualcosa ad aspettare. Solo per me".

Quel preambolo mi confuse ancora di piú. Gli chiesi di cosa stesse parlando. Lui mi fissó, per un attimo privo di espressione.

"Ti serve una storia, no?" mi chiese con l’aria di chi non apprezza l’essere interrotto.

Annuii.




"Beh, eccoti una storia allora". Il suo viso tornó a rilassarsi come se quell’interruzione non fosse mai avvenuta.

"Ero lì da tre giorni. Le giornate erano state meravigliose fino a quel pomeriggio. Poi il cielo s’era fatto di un grigio scuro, con un vento gelido che qui non ho mai sentito. Ero sulla Royal Mile, in pieno centro, cosí mi avviai verso la mia stanza per non essere sorpreso dalla pioggia. Mentre camminavo mi arrivó il suono di un violino. Per un attimo pensai che quella musica fosse solo nella mia testa. Poi la vidi. Aveva capelli ricci lunghissimi, biondo cenere. Era piccolina e portava un maglione di molte misure piú grande. Suonava ad occhi chiusi. Sembrava essere una cosa sola con il violino. Sembrava essere una cosa sola con la musica. La folla di passanti sfilava indifferente, ma io rimasi a fissarla finché non smise di suonare. Lei raccolse le poche monete dalla custodia del violino aperta ai suoi piedi e cominció a mettere via lo strumento. Prima che mi rendessi conto di cosa stessi facendo le andai incontro per presentarmi. Lei mi sorrise e mi disse il suo nome. Le chiesi se le andava di pranzare insieme. Disse che aveva giá mangiato, ma che un drink l’avrebbe accettato volentieri. Insomma, in pochi minuti ci ritrovammo seduti ad un tavolo in un pub lì vicino. Tiró fuori da una tasca uno di quei piccoli iPod colorati che si vedevano in giro vent’anni fa e lo mise via nella custodia, col violino. Le chiesi cosa le piacesse ascoltare. Lei sorrise imbarazzata. “Veramente qui sopra c’è una sola traccia, e non si tratta di musica”. Le chiesi se fosse un libro. “No”, mi disse, poi non aggiunse altro. “Allora?” la spronai. “Asciugacapelli” mi disse. Li per li non capii. Immagino lei se ne accorse dalla mia espressione. Rise, immbarazzata. La bellezza di quella risata ancora mi rimbomba nella testa di notte. “È la registrazione del suono dell’asciugacapelli” mi spiegó. “È un suono che mi rilassa come nient’altro. Rumore bianco. Me lo porto sempre dietro, non si sa mai quando potrebbe servirmi”. Le sorrisi, per toglierla dall’imbarazzo. Mentii e le dissi che anche a me quel suono rilassava. Sono sicuro che non mi credette, ma la cosa non sembró toccarla. Non cercava conferme. Non la imbarazzava quel suo piccolo rituale, la imbarazzava doverne parlare. “Vedi, mia madre aveva quest’abitudine, ogni mattina di inverno, mentre vestiva me e mia sorella, prendeva l’asciugacapelli e riscaldava i nostri calzini prima di farceli indossare. Poi faceva lo stesso con i nostri cappelli e le sciarpe. Quei cinque minuti, seduta sul letto, con ogni rumore cancellato da quel suono, non so, per me era la parte migliore della giornata”. Per un po’ non disse altro".

Il Gigante, sempre piegato sul bancone, smise di parlare ed afferró uno dei bicchieri, riprendendo a lavorare di straccio. Non capivo se quello fosse il suo modo di rivivere la pausa della violinista nella sua storia, una sorta di resa teatrale del racconto, o semplicemente la sua ossessione che si rifaceva viva.

"Mi chiese se ci capivo niente di fisica. Mentii di nuovo e le dissi di si. Lei mi raccontó che durante l’universitá le era capitato tra le mani un articolo sull’esistenza di Universi paralleli. “Me ne innamorai immediatamente”, disse. “Non della teoria scientifica. Mi innamorai della possibilitá che ad ogni scelta, ad ogni nostra minima azione possa esistere una nuova versione di noi stessi. Era un pensiero che in qualche modo mi confortava e turbava. Lì fuori, da qualche parte, potrebbe esserci tutto ció che potenzialmente sarei in grado di essere, nel bene e nel male”. Rimasi a riflettere sulle sue parole. Avrei potuto chiederle cosa avesse studiato, o qualsiasi altra domanda di circostanza che potesse riportare quella conversazione su binari normali. Invece le chiesi cosa c’entrassero gli Universi col rumore dell’asciugacapelli. Lei sorrise e si aggiustó una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Era bellissima. “Vedi” mi disse con lo sguardo fisso sulle mani, “dopo aver letto quell’articolo mi venne da pensare che il rumore bianco è un po’ come il suono che riempie gli spazi sottilissimi tra quegli Universi. Ascoltarlo è come ascoltare contemporaneamente tutte le versioni di me stessa. Quel rumore mi rende integra al di là di ogni possibilitá”.

Conoscevo quella teoria e avevo sentito già parlare dei rumori bianchi. Ma non avevo mai considerato nessuna delle due cose in quei termini. Un brivido mi corse lungo la schiena. Il Gigante sembró accorgersene e sorrise. Rimanemmo in silenzio.

"Che successe poi?" gli chiesi.

Il Gigante si rimise in piedi e riprese ad asciugare bicchieri.

"Non molto" continuó. "Rimanemmo senza parlare per un po’. Stavo rimuginando sulle cose che mi aveva detto. Onestamente pensavo di avere a che fare con una squinternata. Lei continuó a bere normalmente, come se mi avesse semplicemente raccontato dove era cresciuta e non la sua assurda versione dell’Universo. Fuori aveva cominciato a piovere. Senza scomporsi lei tiró fuori un ombrello scassatissimo; in quella pioggia non sarebbe servito a niente. Glielo feci notare, lei mi disse che non faceva differenza. Mi ringrazió per il drink. Le chiesi se potevo rivederla. Lei sorrise, si voltó e si avvió nella pioggia".

Il Gigante non aggiunse altro.

"Poi?" gli chiesi.

"Beh, poi ci scrivi Fine"

Rimanemmo in silenzio. Buttai giú l’ultimo sorso, pagai e salutai il Gigante. All’uscita una folata di vento mi ricordó della differenza di temperatura tra il locale e il resto del paese.

A riscaldarmi, peró, ora avevo la certezza di aver trovato la storia che cercavo. Sorrisi e mi avviai verso casa a passi svelti.


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