Testo di Serena Barsottelli
Illustrazione di Emma Arduini
La differenza tra scivolare e strisciare è la fatica. Lo sforzo disegna una pennellata rossa sulle rughe del viso mettendole in risalto come in un’opera d’arte. Nessuno, però, ha il coraggio di ammirare quel capolavoro. È troppo umano, no, troppo bestiale l’affanno del verme; troppo inquietante l’impossibilità di provare emozioni in chi lo osserva dall’altra parte della teca.
Se l’osservatore potesse toccarlo, non con un dito, ché proverebbe ribrezzo, ma con un ramoscello, una matita, la lama di un coltello, staccherebbe le mani dal vetro, dipingendo contorni appannati dal sudore; poi lo punzecchierebbe. Non vorrebbe ucciderlo, questo è quello che tutti dicono anche del gatto che gioca ad acchiappino con il topo. Se potesse far altro oltre che osservare, spingerebbe quel legno in profondità. Torturerebbe il verme. Il verme morto identico a un verme vivo.
Non c’è leggiadria né morbido fluire nello strisciare. Striscia il verme, la serpe, un uomo che lotta per non diventare carne per vermi. Un corpo già cadavere che non accetta di esserlo. Si trascina, sulla polvere del pavimento di marmo scuro, uno strato impossibile da scorgere se non si colpisce con una luce diretta. Fa pressione sulle braccia, sui palmi rossi delle mani, sulle dita gonfie che gli anelli imprigionano alle nocche. Le gambe si lasciano spostare come vagoni da locomotiva. È un treno senza più macchinista, destinato a deragliare, no, rovinare, in un tratto di ferrovia circondato dalla foresta, dove il verde della vegetazione si confonde con la ruggine delle rotaie, con i bianchi calcinacci di un rudere imbrattato di scritte. Un materasso gettato su un pavimento di aghi di pino e di altri aghi, di quelli che si piantano sotto la pelle in attesa che qualcosa torni a germogliare. Se sei fortunato, non senti niente. Se sei fortunato, quando chiudi gli occhi è per sempre. Il verme striscia o forse è fermo. Il verme è morto o forse è vivo. Pallido, l’occhio spento, l’odore indescrivibile, l'altrui ribrezzo.
È quasi giorno. Impettito, sopra a una gabbia, tra la ciotola con l’acqua e i ciuffi di verdura già anneriti, il gallo spalanca il becco lasciando danzare sul collo i bargigli. Si muovono lenti, come il viso curioso di un bambino che da lontano lo guarda. Nell’aia una femmina si accovaccia sopra un uovo cercando una posizione comoda. Siede, in silenzio, in attesa della schiusa. Alcuni pulcini si accalcano oltre una recinzione, cercando un modo per uscire: raspano la terra scura, balzano prima di cadere perché non sanno che le loro ali non sono fatte per volare. I pulcini ignorano che presto si scaglieranno l’uno contro l’altro, rosicchiandosi la pelle, strappandone le piume. Corrono, come poco fa correva quel bambino, prima di aggrapparsi alla rete e di infilare un dito. Troppo tardi il piccolo lo ritrae e pensa che potrebbe perderlo. E non scappa via urlando, non cerca sostegno piangendo verso un padre o una madre; afferra l’erba, ne getta alle bestie. Scava con la mano intonsa una piccola buca in cerca di un verme da sacrificare, ché, assaggiata la carne, i polli non potranno più farne a meno. Le galline si avvicinano al verme, i pulcini impazziscono, ma è il gallo ad afferrarlo e a inghiottirlo con un colpo di testa. Deciso il movimento, deciso il destino. I bargigli si muovono nella furia; poi si fermano.
Strisciano i vermi, ululano i lupi. Si tengono lontani dai nidi delle volpi e dalle case degli uomini; se la fame li costringe si avvicinano, in branco, la pancia abbassata appena sopra al muschio che ne solletica il pelo. Scivolano nella notte sotto gli occhi ambrati dei gufi sui rami più alti. Una mela cade vicino a una zampa del lupo più vecchio: la bestia non se ne cura, presa com’è a fiutare la preda. Dalla polpa sbuca un verme superstite, illeso. Il rapace torce il capo, cercando un rimedio all’impazienza. Nella brezza notturna, la vertigine di foglie intorno al suo corpo disegna mulinelli freddi da cui è impossibile ripararsi anche nascondendo il capo tra le folte piume del petto.
Il branco passa oltre, il verme scivola sulla buccia rossa, merlettata di ombre marroni. Il gufo scende in picchiata, afferra la preda prima che fugga lontano, la ferma. Il verme non conosce più la fatica.
Gli ospiti si voltano quando l’invitato speciale fa il proprio ingresso nella grande sala. Le maschere nascondono i loro lineamenti, ma lembi di carne restano scoperti. Un ampio petto incastrato in un corsetto rosso; il collo bianco e appuntito della camicia di lino bianco; caviglie vestite di soli gioielli e polsini sigillati da gemelli.
La musica dell’orchestra diventa silenzio, e anche il vociare, nebuloso e diffuso, come fumo di una sigaretta rimasta accesa e scordata sul bordo di un vaso, si dissolve tra le luci violente che si propagano dal centro del soffitto.
L’uomo non indossa abiti pregiati, anzi, non indossa nessun abito. Seduto su un carrello coperto da un drappo bianco di seta, viene lasciato lì da chi lo aveva accompagnato. Si rannicchia, avvicinando le ginocchia alle guance, lasciando scomparire il viso tra i disegni abbozzati dalle gambe. Nudo, come l’imperatore tradito. Nudo, come un verme agonizzante.
L’hanno trovato disteso su una coppia di cartoni, i piedi appena fuori dai bordi, sul marciapiede. Un cappotto scuro promosso a coperta. Un diario dalle pagine umide, pieno di parole che nessuno di loro avrebbe letto. Avrebbero potuto finirlo con un colpo mentre era sospeso tra il sonno e la morte. Avrebbero potuto, ma non l’hanno fatto. Il verme deve essere vivo per il pesce che bacia l’amo.
Nella sala, all’inizio della cerimonia, gli ospiti si avvicinano, uno dopo l’altro, per ammirarlo un’ultima volta. Alcuni si tengono distanti, prestando attenzione a che niente di loro entri in contatto con lui, quasi potesse contaminarli.
La regina di cuori alza lo scettro e colpisce una volta senza affondare. Punzecchia il costato, la corona di spine, le mani dalle dita nodose e dalle unghie sporche. Il fante di picche la afferra per la vita e la allontana dal verme; la tocca senza farsi vedere dal re di cuori che non teme niente, neppure l’odore di quella carne ancora sporca, e suo malgrado viva. Malata, sanguinante. Avvicina la bocca a una ferita, e combatte così la fame e la sete, il senso di limite che non conosce più.
È quasi l’alba, il verme è ancora al proprio posto. Seduto, sul carrello coperto dal drappo di seta che ormai non è bianco, ma rosso, marrone, nero. Le macchie si confondono con la sua pelle, e il suo petto si alza e si abbassa svogliato. Da quella posizione si contano le costole, e i lividi, e i morsi. Le pagine del diario e i cartoni bruciati nel grande camino che dovrebbe riscaldare la stanza ma che non lo fa.
Sparpagliati, appesi alle pareti come pipistrelli stanchi, accovacciati a terra tra bicchieri vuoti, lacerti di velluto e di seta. Dormono, senza coprire il volto per la vergogna, ma sfuggono pezzi di pelle a cui nessuno presta attenzione: i riccioli di un’iniziale ricamati in un tatuaggio, la cicatrice di un intervento superato.
Fuori, nel giardino della villa, accompagnato dalle prime luci del mattino, uno scricchiolio del legno. Un cane si allontana troppo dal padrone che lo richiama a sé. L’animale lo ignora, fiutando l’aria, correndo con la coda alzata. Arriva alla finestra, appoggiando al davanzale le zampe anteriori. Abbaia, e l’uomo lo raggiunge in affanno. Insegue lo sguardo della bestia, incurante della bava calda che cola fino ai suoi piedi scoperti. Vede. Prova a strattonare il cane per la gola, poi si arrende. Corre, corre senza voltarsi indietro, calpestando una mela rossa merlettata di ombre marroni che si disfa appena, sotto lo scarpone, con uno svogliato borbottio.
Il gufo dorme nella sua tana, la pancia piena. Un cane abbaia, e un altro gli risponde chiuso al sicuro nel proprio recinto.
Il verme sul carrello esala l’ultimo respiro, libero.
Nota biografica
Serena Barsottelli nasce a Viareggio nel 1985. Dopo gli studi classici, si laurea in filosofia. I suoi racconti sono apparsi sul n. 57 del magazine dell’Istituto Luce “Otto e mezzo” e sul n. 18 di “Offline”.
Le storie che narra sono tutte vere. Stanno accadendo altrove, in un mondo diverso, e lei si limita a raccontarle.
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