Titolo: Ananda
Autore: Pietro Emiliani
Illustrazione: Angela Larcher
Era un venerdì pomeriggio come tanti. Il caldo si arrampicava come un mollusco sulle finestre della città, alla ricerca di un corpo da invadere e contaminare. Cristiano Fulminacci raggirava i pericoli dell’estate fumando annoiato da dietro i vetri e osservando lo sciame di persone srotolarsi confusamente per le strade. Erano le 18 e 07: le vie del centro di Milano iniziavano a impomatarsi di figure e rumori animaleschi, passaggi di ombre e contusioni di corpi che lo avrebbero perseguitato fino a notte fonda. Era la solita ora, il solito disordine serale.
Cristiano Fulminacci abitava in una traversa del Naviglio Grande, una di quelle strette vie a collo di bottiglia dove la gente era solita vendere cocaina o svuotare la vescica. Era ormai abituato alle urla e alla maleducazione del weekend pomeriggio e quel venerdì sera non era tanto diverso dagli altri. Finita la sigaretta, scrollò la tenda come un insetto fastidioso e cadde sul divano privo di entusiasmo. Si guardò intorno e sorrise: finalmente poteva rilassarsi e crogiolarsi nella solitudine dato che nessuno si era fatto più sentire. Nessuna chiamata. Finalmente si erano arresi. Rimase calmo a contemplare il soffitto e le sue venature, valutando le possibilità che quel venerdì sera gli avrebbe concesso quando improvvisamente il telefono eruttò un versetto acuto. Si squarciò la tela di serenità nella stanza. Cristiano si rattrappì su se stesso come una lumaca, strinse i pugni e serrò la mascella. Erano tornati.
Il cellulare era lì davanti ai suoi occhi, ma Cristiano non osava toccarlo. Il sudore gli colava dalla fronte come plastica fusa. Conosceva perfettamente il contenuto di quel messaggio, la profonda disgrazia a cui sarebbe andato incontro se avesse risposto. Lo sapeva: erano tornati.
Così contò i secondi adeguati per distendere tutti i muscoli del corpo e prese coraggio.
Guardò il cellulare. La notifica recitava:
- Luigi Cesoia: “Tra 10 minuti siamo sotto da te. Sbrigati o ti tiriamo giù con la forza”.
Cristiano sentì il corpo cedere e le mani levitare come fazzoletti nell’aria: sapeva che quel giorno prima o poi sarebbe arrivato, non poteva più nascondersi né fuggire.
Da diverse settimane i suoi amici continuavano a tormentarlo con chiamate e messaggi dopo il suo ricovero in ospedale, volevano farlo bere per ritrovare un senso di normalità sociale ma Cristiano si era opposto fin da subito in modo così ostinato da dover spegnere il cellulare.
I suoi amici erano ossessionati dal bere ma lui ormai era fuori dai giochi, non voleva essere ritrovato né socializzare o sedersi al tavolo di qualsiasi bar. Era svanito nel nulla e così i suoi amici si erano arresi alla realtà dei fatti. Ci era riuscito. Fino ad oggi.
Erano le 18 e 15: Cristiano Fulminacci non aveva più modo di sottrarsi stavolta. Nessuna scusa. Doveva accettare l’invito all’aperitivo.
Tutti gli abitanti di Milano erano ossessionati dall’aperitivo, non solo gli amici di Cristiano.
Da qualche anno infatti la città era caduta in un vortice di necessità alcolica bizzarra e immotivata: le persone, appena smontate da lavoro, correvano eccitate verso i locali limitrofi per potervi passare tutta la sera. Si era come impressa una maledizione: i milanesi non facevano altro che bere, si vedevano orde di ubriachi latrare per le vie del centro a qualsiasi ora dopo le 18. Merito anche del nuovo decreto urbano, la riforma Tagliabestia, la quale aveva ridotto le ore lavorative a favore del benessere individuale, riforma che invece di sostenerlo, tendeva a danneggiarlo dato che il tempo concesso veniva consumato in birreria o enoteca.
Fu un momento tanto importante quanto tragico per la comunità di Milano: l’economia ne risentì in modo positivo, incentivando l’apertura di locali in ogni zona della città, ma la salute, le aspirazioni e i desideri dei cittadini vennero presto rimpiazzati da una bionda tedesca o un Moscow Mule. Oltre il lavoro, non esisteva più altro. L’economia di Milano si basava sull’aperitivo: la città era sempre in festa e le persone felici e stordite, libere di potersi concedere uno spazio dove ritrovare il sorriso, un sorriso sformato e sempre alterato.
La particolarità alquanto insolita di questo cambiamento sociale però era il portamento di innocua euforia che le persone ostentavano dopo una serata in compagnia visto che, con tutto quell’alcool a disposizione, non si erano creati mai veri e propri tumulti per le strade. Vigeva una regola implicita tra gli abitanti la quale promuoveva il consumo libero di alcool a patto che non disturbassero eccessivamente l’ordine pubblico. Tutto si doveva concentrare nei limiti del decoro: gridare, festeggiare o cantare era permesso, ma oltre un preciso confine la polizia era costretta a intervenire. Le strade infatti erano costellate di telecamere e squadre di pattuglia, e appena nasceva un disordine o si scatenava una rissa, la polizia agiva nel giro di pochi minuti. Questo era il compromesso che Milano offriva e sembrava che i suoi cittadini l’avessero accettato con piacere pur di potersi dedicare alla loro attività preferita. Non c’era una vera spiegazione a questa fame alcolica. Nessuno lo sapeva. Tutti amavano bere e sciogliersi in fiumi di alcool. Tutti tranne Cristiano Fulminacci.
Trentadue giorni, nove ore e ventitrè minuti: era il tempo che Cristiano aveva trascorso senza toccare una sola goccia di alcool dopo un’intossicazione alcolica che lo portò ad un ricovero di emergenza in ospedale. Quella sfortunata sera di quattro venerdì precedenti, Cristiano aveva alzato il gomito più del dovuto insieme a due amici durante una cena con le rispettive fidanzate: quattro bottiglie di rosso, quattro di bianco, qualche birra per stemperare la noia durante i preparativi e, solo verso la fine, l’entrata in scena di due bottiglie di vodka di discutibile qualità, perfette per chiudere il cerchio alcolico della serata. Un sottile e penetrante conato di vomito aggredì lo stomaco di Cristiano al solo pensiero di quella sera. Trentadue giorni senza alcolici: la sua vita non era mai stata così salutare; nessun mal di testa a forma di spine, nessuna occhiaia color laguna al risveglio e uno sguardo lucido in grado di reggere gli attacchi inquisitori del suo capo che tentavano ostinatamente di aprire una debolezza sul quale appellarsi per torturarlo psicologicamente durante l’arco dell’intera giornata.
Era la prima volta che sorseggiava con beatitudine una vita costruita sul benessere fisico ma intuiva con panica apprensione che, oggi, venerdì 7 Luglio, tutta la disciplina costruita nelle ultime settimane sarebbe andata distrutta. Vedeva il suo fegato volteggiare come una ballerina ubriaca in mezzo ad un autostrada, tramortita e investita dalle macchine in corsa.
Così Cristiano si guardò intorno alla disperata ricerca di un pretesto, una formula o sensazione che potesse estirpare la sua paura di oltrepassare la soglia di casa, di accettare l’ennesimo aperitivo. Probabilmente i suoi amici erano già sotto. Aspettò in silenzio ma nessuna presenza dal salotto rispose alla sua richiesta di aiuto, solo un suono sordo simile ad un’annunciazione consolava le gocce di sudore che gli ruzzolavano giù come detriti dalle tempie: era il caldo a riscuotere la sua miseria.
Il telefono squillò nuovamente: Luigi Cesoia. Cristiano rispose senza troppi indugi:
“Cciao Gigi”
“Oh finalmente! Non sei morto come pensavamo. Scendi allora? Sono con Giulia e Riccardo che andiamo all’ Ananda. Dai scendi.”
“Non possiamo rimandare a un altro giorno? Devo finire una pratica per domani mattina, scusami tanto”
“Dai Cristiano smettila di inventarti l’ennesima scusa ed esci, non ti vediamo da settimane! Muoviti. Ciao”
Non ebbe modo di ribadire la sua volontà a non uscire che il Cesoia chiuse gelidamente la chiamata. Storia chiusa. Cristiano doveva riprendere la sua vita sociale, accettare l’invito come un destino.
“Mi farà bene dai” pensò amareggiato infilandosi le scarpe.
“Alla fine si tratta di una singola uscita dopo settimane di reclusione” si autoconvinse chiudendo la porta alle sue spalle, e una sensazione di orrore girò la chiave al suo posto.
L’aperitivo era lì ad aspettarlo.
Gli amici di Cristiano erano già sotto a intonare canzoni stringendosi l’un l’altro in un clima di contraffatta liturgia serale. Nel vederli, la gola di Cristiano si attorcigliò come una biscia.
Le danze erano appena cominciate.
“Eccolo il nostro eroe, un applauso per favore!” esclamò Luigi in abito blu da lavoro.
“Allora sei vivo!” rise di gusto Giulia mentre aggrediva una sigaretta con tutto il rosso delle labbra mentre i suoi occhi divampavano erotismo.
“Ragazzi ma siete già ubriachi?” domandò Cristiano quasi intimorito, notando che i suoi amici avevano in volto un’espressione di sottile ambiguità, una mania che brillava negli sguardi.
Si annidava qualcosa di diverso nel loro modo di muoversi e sorridere, qualcosa di atipico e sinistro che rendeva Cristiano vulnerabile.
“Assolutamente no, siamo solo pronti per esserlo e felici di rivederti dopo il tuo isolamento da non so cosa” affermò Riccardo sistemandosi il ciuffo di capelli che gli cadeva sull’occhio destro. Riccardo era ossessionato della sua chioma castana tanto da passarci sopra la mano in modo compulsivo; adoperava creme e unguenti per renderli sempre lucenti e profumati ma quel venerdì qualcosa era cambiato: erano unti fino a formare grosse ciocche marrone scuro, grassi e appesantiti come se non li lavasse da settimane ma Cristiano fece finta di nulla per non ferire la sua vanità.
Tutti e tre i suoi compagni lo osservavano divertiti, in silenzio, mentre Cristiano sentiva una bolla di vuoto dilatarsi nel petto, assistendo inerme al loro gioco di sguardi sempre più inquieti che correvano da un punto ad un altro senza sosta.
La loro esuberanza era altrove, distillata e venduta in un luogo di cui non era più parte, estraneo alla loro detonazione di serotonina ma non tanto per un senso di amicizia violato, quanto per paura della propria incolumità.
Qualcosa stava covando sotto le fila dei loro denti ben esposti ma Cristiano non riusciva a spiegarsi l’origine di tale sensazione.
“Incamminiamoci prima che ci rubino il posto, oggi è venerdì, ci sarà il caos all’Ananda” dichiarò Luigi prendendo sotto braccio Cristiano. L’Ananda era lì ad aspettarli.
L’Ananda era il locale di fiducia della compagnia di Cristiano, collocato all’inizio del Naviglio Grande: si presentava come uno di quei classici locali da aperitivo, scialbi e anonimi, in cui si riversavano i primi sbandati del sabato sera. Situato sul lato sinistro del corso, non presentava particolare cura nell’arredamento, solo tavoli e sedie di plastica di un bianco scadente ormai prossimo al grigio per quanto fosse consumato; probabilmente non li cambiavano dalla prima apertura. L’unico motivo per il quale Cristiano e i suoi amici frequentavano l’Ananda era puramente economico: i cocktail oscillavano fra i cinque e i sette euro, garantendo così un discreto rapporto qualità-prezzo rispetto alla media dei locali milanesi.
Arrivati lì davanti, trovarono subito un tavolo. Come sospettava Luigi, l’Ananda traboccava di persone, era una combustione di grida e arroganza, disincanto e annullamento.
“Per fortuna che abbiamo trovato un tavolo, guarda che casino c’è” affermò Riccardo accarezzandosi una lumaca fra i capelli. Cristiano lo squadrò con disgusto. Com’era possibile che non si fosse accorto di nulla? Nel frattempo Giulia e Luigi assorbivano l’energia emanata dal locale nutrendosi delle risate e delle voci circostanti, quasi che si plasmasse una litania rabbiosa e viscerale cui era impossibile sottrarsi. Una salmodia ignota e informe drenava nelle fasce muscolari di Cristiano che, pietrificato, sedeva avvinghiato alla sedia mentre i suoi amici ordinavano da bere. Un senso di estraneità si coaugulava nel petto, sentiva il respiro lottare per non seguire quell’euforia animale.
“Allora Cristiano, che pratica dovevi sbrigare stasera?” domandò Luigi sogghignando mentre tamburellava l’anello del mignolo sinistro sul tavolo. Cristiano, sebbene non riuscisse a formulare un pensiero lucido, provò a rispondere concentrando l’attenzione su Luigi.
Due grumi densi a forma di occhiaie pendevano dai suoi occhi, solchi scuri come terra vandalizzata risaltavano il verde dei suoi occhi. Era la prima volta che gli notava delle occhiaie.
“Ma no figurati, una sciocchezza alla fine” rispose Cristiano abbassando lo sguardo.
“Ragazzi dovete controllarmi stasera perché ho una voglia di bere incredibile” esordì Giulia con l’ennesima sigaretta alla bocca.
“Non risponderò di me stessa” rise nuovamente mordendosi le labbra, labbra che mostravano ferite simili a crateri vulcanici. Il rossetto sbrodolato era lava essiccata che penzolava dagli angoli della sua bocca. Una noncuranza atipica per Giulia.
“Come ieri d’altronde. Ogni giorno ripeti la stessa cosa” rispose Riccardo divertito.
“Ogni giorno sei qui a bere, vorrei aggiungere” disse Luigi.
Cristiano sedeva inorridito a questo accumulo di dettagli spiacevoli che continuavano ad assalirlo. Si era forse perso qualcosa in queste settimane? Cosa era successo in sua assenza? Disgustato dalle sue percezioni, cercò di distrarsi osservando le persone sedute agli altri tavoli: notò due giovani al suo fianco reggere i cocktail a fatica, pallidi e vuoti, due manichini che bevevano in silenzio con mani lunghe e bollite mentre dal tavolo sanguinava un’acqua nera e densa come catrame che sembrava provenire dal corpo dei due ragazzi.
Dalle palpebre e dalle orecchie scendeva un liquido fangoso ma nessuno sembrava accorgersene. Alla sua destra un gruppo di donne mature rideva in modo così ostentato da dilatare la bocca in modo innaturale, mostrando una dentatura da rettile; anche la loro carne secerneva un liquido scuro e melmoso.
Arrivò da bere. Alzò lo sguardo, e quando vide il cameriere, urlò: era un corpo esile e allampanato, interamente bruciato, non di un uomo, bensì di un albero carbonizzato. Stringeva la birra fra le mani, con un sorriso bianco latte che stagliava dal suo aspetto color petrolio.
“E’ sua la doppio malto?” chiese la creatura ustionata.
Cristiano non rispose, le mani erano alghe aggrovigliate di paura. Non era più in grado di distinguere la realtà dall’orrore e sebbene manifestasse un profondo stato di smarrimento, i suoi amici continuavano ad ignorare il suo malessere.
“Si, la lasci pure qui” rispose Luigi con fare sbrigativo.
“Ma l’avete visto il cameriere” balbettò Cristiano incredulo.
“Si, è il solito cameriere dell’Ananda, perché?” chiese Luigi.
“Ma si, Cristiano, è sempre lui, che problemi ti fai ora? Salute ragazzi, al nostro amico ritrovato!” sibilò Giulia sguainando la lingua.
“Salute!” rispose Riccardo che fissava con sinistra ingordigia il suo calice di vino.
Cristiano si raggomitolò sulla sedia, severo in volto, cercando di evitare ogni contatto visivo con l’esterno. Stava forse impazzendo? Erano bastate tre settimane di sobrietà per dissociarlo dalla realtà? Forse era l’alcool, l’astinenza che si faceva sentire. Non aver toccato più una bottiglia aveva creato in lui una diversa percezione, aveva aperto senza volerlo un nuovo canale di conoscenza che gli impediva tuttavia di razionalizzarlo.
Il male strizzava le sue tempie, si gonfiavano radici nella cassa toracica, dolori intercostali che lo costringevano ad agitarsi sul posto. Lanciò uno sguardo al cameriere: fermo, in mezzo alla sala, fissava Cristiano con un sinistro risolino, quasi a sfidarlo e aspettare fino a che punto potesse scivolare in quell’incubo manifesto mentre il nero dell’acqua si sbavava dal suo volto incenerito. Era partecipe delle visioni di Cristiano, conosceva il segreto di quei dettagli e di quelle atroci immagini che lo assalivano ma nonostante questo continuava a fissarlo con oscuro divertimento. Lui sapeva.
Cristiano, impotente, sentiva il cuore digrignare ad ogni secondo, le orecchie torcersi per i suoni sempre più insistenti del locale. Intrappolato, chiuso, isolato, barcollava alla vista di creature non più umane, ma invase da quel liquido salmastro che li andava ricoprendo. Nessuno sembrava accorgersi della mutazione, anzi, sfoderavano grandi risate ingerendo quantità di alcool sempre più consistenti dato che i camerieri continuavano a riempire i bicchieri di tutti i presenti, inclusi i suoi amici. Solo i calici di vino e i bicchieri di vetro si distinguevano da quella massa nera e gommosa che avanzava sui tavoli e fra le sedie. Sul pavimento, Cristiano notò dei lunghi cordoni ombelicali, anch’essi di colore scuro e decomposto, serpeggiare tra i presenti e nutrirsi di quel liquido sporco che le persone trasudavano.
La loro massa si espandeva gemendo di piacere, emettendo un mugolio lento e acuto che inumidiva l’aria. Cristiano, quasi offeso, si alzò di scatto cercando di reagire ma il suo corpo aveva deciso di abbandonarlo, solo il suo sguardo si oppose andando a posarsi sui cordoni ombelicali che vide provenire dall’interno del locale. Osservava i loro movimenti pulsare e dilatarsi come ghiandole salivari, nutrirsi di quel liquido prodotto da tutti i presenti, e più bevevano, più il liquido si addensava e i cordoni apprezzavano; la loro fame cresceva decomponendo le sicurezze di Cristiano il quale cercava il coraggio adatto per entrare all’interno dell’Ananda e capire veramente qualcosa di quell’orrore. Non ci riuscì, rimase in piedi come una statua a subire il male nero e torbido che ormai aveva ricoperto le sue scarpe. Incapace e ormai prossimo al delirio, agguantò la birra per non impazzire. Fece un sorso e sorrise. Chiuse gli occhi.
Era solo un aperitivo.
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