Rubrica mensile di racconti a tema illustrati da Benedetta Leoni e Tino Adamo
«Credo che tra tutti i racconti che ho scritto questo sia quello che mi è costato meno fatica e mi abbia divertito di più. L'ho scritto in un giorno a New Orleans, con il preciso scopo di comprarmi un orologio da polso in platino e diamanti che costava seicento dollari (...) Il divertimento che ho provato nello scriverlo deriva dal fatto che la parte del racconto sul cammello è letteralmente vera; infatti, ho preso un impegno formale col signore in questione di partecipare alla prossima festa in costume dove tutti e due siamo stati invitati, travestito da parte posteriore del cammello... »
Francis S. Fitzgerald, La parte posteriore del cammello
Primo numero
tema: scadenza autore: Lorenzo Vercesi
«Sorridevi, larga e lucente, col tuo modo sottilmente imbarazzato di aprire l’arco delle labbra e rivelare la dentatura imperfetta; sembrava non potesse più esistere qualcosa di simile ad una penombra che scende su una stanza, prima illuminata dalla luce solare»
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Non ti sembra che l’orto produca di più, quest’anno?
Me lo hai detto mentre ero in cucina, ad un tono di voce più alto, per farti sentire dal giardino. La luce del pomeriggio ora trascura la cucina, la lascia sommersa in una piacevole penombra in cui tutto si acquatta, in una specie di fragile attesa. Si dipinge sulle piastrelle di cotto, a terra, solca le linee che le scontornano, dividendole l’una dall’altra; sono ancora calde del sole che le ha inondate per tutta la mattina, sento appena rinfrescarsi le piante dei piedi, nudi, che vi si appoggiano, mentre lavo le stoviglie del pranzo
Non saprei, non ci ho fatto molto caso… tu dici?
ti rispondo anche io forzando il mio tono di voce a superare il confine di spazio che ci separa, raggiungendoti nel giardino. Cerco anche di imprimere alla mia domanda un’inclinazione bonaria che trasmetta un interesse genuino. Sono affezionato, in fondo, a certe declinazioni delle tue ostinazioni, come quella di tenere un orto nel giardino. Eri particolarmente bella, il giorno in cui me lo hai detto; avevi un vestito di cotone estivo, blu scuro, con striature fiorite di sfumature meno intense dello stesso colore; i seni ti si indovinavano al di sotto, docili e sensuali, e i tuoi capelli castani li sfioravano, mentre piegata in avanti verso di me mi parlavi, determinata e radiosa. A piedi nudi sull’erba del giardino avevi misurato a piccoli passi il rettangolo in cui volevi realizzare l’orto.
Sorridevi, larga e lucente, col tuo modo sottilmente imbarazzato di aprire l’arco delle labbra e rivelare la dentatura imperfetta; sembrava non potesse più esistere qualcosa di simile ad una penombra che scende su una stanza, prima illuminata dalla luce solare. Mentre mi chiedevo come avrei potuto ricambiare un entusiasmo così incontaminato, un che di ombroso premeva sulle mie palpebre. Il pensiero di sminuirlo, di sottrarlo della sua linfa vitale e terrea, agiva dentro di me con l’efficacia agghiacciante di una piccola paralisi. Sapevo di averlo, quel potere. La pietra del tavolo non mi era mai sembrata così gelida
Ho già raccolto quattro pomodori, l’anno scorso non ne abbiamo potuto mangiare neanche uno! E le zucchine sembrano essere a buon punto. Vieni a vedere, dai!
Mi avresti risposto così, quasi un anno fa. Sarei uscito in giardino, lasciando piatti e bicchieri nel lavello. Ti avrei raggiunta, chinata sulle tue zucchine, mentre ne sfioravi con le dita ciò che affiorava dalla terra. L’avrei fatto sapendo con certezza di appartenere alla grazia di quel momento. Avrei ricordato il sapore di quei pomodori, terreo, succoso, mischiati ad un’insalata profumata, o trasformati in una salsa da accompagnare alle cipolle e alle carote; l’avrei quasi sentito di nuovo in bocca, riassaporandolo. Può essere che in quel momento, passando dal fresco delle piastrelle di cotto della cucina al calore vegetale dell’erba del giardino, avrei anche sentito di poterlo ricambiare quel senso di meraviglia, di quiete dischiusa, di cui tu partecipavi e senza alcuno sforzo mostravi di voler condividere con me. Può darsi che per un giorno non avrei sentito, alla gola e allo stomaco, martellare il timore di buttare tutto all’aria, con la facilità con cui si gettano dei fiori assortiti per paura di vederli morire
Il rumore degli pneumatici di una macchina che solcano la ghiaia del viale ha coperto la tua reale risposta. Subito dopo, quello di una portiera che si chiude e dei passi di qualcuno che si avvicina alla casa. Tendo l’orecchio, incuriosito, ma non mi muovo dalla cucina. Sento che ti avvicini all’ingresso, il cigolio del cancello che inizia la sua litania. Da qui non posso sentire quello che vi state dicendo, ma so con precisione che spero ti trattenga a lungo. E’ una speranza annichilita, quasi sfibrata, vigliacca. Mi si appende alla maglietta, come una gigantesca cavalletta che piega una spiga di grano. Riapro l’acqua, mi riaggancio disperatamente a quel rumore minerale, alla sua costanza di sottofondo.
Mi chiedo per quale motivo tu mi abbia detto quella cosa, poco fa. Può sembrare banale, ordinaria; una semplice ricerca di complicità. Ma in questo momento risuona in me come una richiesta di soccorso. Il tavolo della cucina, le sedie sparse, il lavello in pietra, le piastrelle di maiolica, inghiottiti dalla penombra, mi appaiono come gli oggetti sparsi di una stanza in cui nessuno entra da tempo, su cui si può scorgere, con chiarezza, il segno del tempo trascorso. Nulla trasmette l’irreparabilità di ciò che è effimero più delle cose trascurate a lungo. Mi hai parlato dell’orto, dell’esito del suo raccolto; di qualcosa di vivo, di riproducibile, dalle proprietà biologiche sorprendenti che possono rinnovarsi ciclicamente. Hai provato a parlarmi come dall’eco di un’altra epoca, distante e inaccessibile, circondata da variegate opzioni di vita, oggi impensate. Sostituite, forse, dall’amarezza dei loro esiti, che ne hanno realizzato i lati più impoveriti. Si richiude il cancello, di nuovo il suo lamento come una litania. Di nuovo gli pneumatici che rodono la ghiaia, e i tuoi passi che ti riavvicinano a me. Deglutisco. Mi sento statico e trapassato come una statua antica
«Può darsi che per un giorno non avrei sentito, alla gola e allo stomaco, martellare il timore di buttare tutto all’aria, con la facilità con cui si gettano dei fiori assortiti per paura di vederli morire»
Avevi comprato un libro, un manuale per l’orto fai da te. Conoscevi la tua capacità di infiammarti per qualcosa alla stessa maniera della tua incostanza. Così avevi deciso di affidarti al sapere millenario, tramandato per generazioni e giunto fino a noi, raccolto in quel libro. Ti eri attrezzata, seguendone i consigli: dei guanti da giardinaggio, una tuta da lavoro, degli stivali, una piccola vanga, un rastrello ed altri utensili. Poi era venuto il turno della terra, del concime e infine delle sementi, i cui tempi di semina, allevamento e fruttificazione il tuo manuale scandiva con precisione e cura.
Tutti i giorni, uscivi in giardino e ti dedicavi a quell’arte fatta di pazienza, dedizione e passione. Pensavo al successo che avevi avuto con le piante, in casa. Alla tenacia con cui ti eri presa cura di loro. Ci pensavo e non mi sorprendeva minimamente. Fino a prima di incontrarti, non avevo mai conosciuto qualcuno che sapesse offrirsi così integralmente alla bellezza. Sapevi scovarla, innamorartene e poi, con la stessa naturalezza, sapevi restituirla. Non c’era persona più adatta a te, allora, per la cura delle piante; un processo d’amore, in cui alla vita che ti alimentava facevi seguire altra vita, da mantenere e soprattutto da condividere, come un giorno capii da un tuo gesto privo di parole: avevi lasciato una pianta di orchidee che eri riuscita a rigenerare sul davanzale della finestra, splendeva. L’orto era solo un’evoluzione, il passo che veniva dopo, nella prosecuzione naturale delle cose. Il tuo manuale questo non poteva dirtelo. Avrei dovuto essere io a farlo.
I tuoi passi ti hanno portata qui, alla finestra della cucina che, nella sua penombra, ospita così bene la mia oscurità paralizzante. Ti vedo contrastare col rettangolo di luce ritagliato dalla porta-finestra. Do le spalle alle piastrelle di maiolica che ho fissato finora, quasi raggelato
Sì, quest’anno mi aspetto un raccolto più sostanzioso. Ho già riempito quasi una cassetta di zucchine e anche i pomodori sono molti
Lo dici guardandomi negli occhi, il tuo tono è neutrale, quasi disadorno. Noto che hai in mano qualcosa, un pezzo di carta leggermente stropicciato. Quando ti accorgi che lo sto guardando, lo appoggi sul tavolo, prima di rivolgermi uno sguardo intenso e distillato
E’ una lista. Ho parlato con un cliente. Domani ritornerà e prenderà le zucchine. Il resto lo aspetta per la prossima settimana
Ti sento dire mentre esci dalla cucina.
Avrei dovuto essere io a dirti quella cosa. In quel manuale non potevi trovarla.
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