Il primo elemento che attira la nostra attenzione accostandoci a The Visitors [id., 1972] di Elia Kazan è il carattere “intimo” della penultima opera del regista: le riprese – che durano meno di due mesi e con un budget limitato – si svolgono in prossimità della residenza privata di Kazan, il soggetto è scritto dal figlio Chris[1] e gli attori, con l’eccezione di Patrick McVay, sono tutti pressoché sconosciuti. Come affermerà lo stesso Kazan:
«desideravo ritornare alla purezza della povertà, in altre parole, mostrare che fare un film era un’impresa essenzialmente semplice e umana e non richiedeva un’enorme struttura di macchinari e attrezzatura, assieme alle spese che essa porta con sé»[2]
In secondo luogo, emerge l’abilità di Kazan nello “sfruttare” l’archetipo cinematografico dell’intruso/ospite indesiderato, al fine di segnare le direttrici di una pellicola costruita sopra una fenomenologia del limite e dell’indifferenziazione. Un utilizzo dell’home invasion strategico e mai autoreferenziale, volto all’esposizione – a partire dal residuo che accompagna l’uscita dal Vietnam – di una delimitazione al contempo politica e spaziale.
Il cosmo invernale
Lo spettatore assiste al primo ingresso umano immergendosi voyeuristicamente nel quotidiano della coppia protagonista. Le due figure introdotte dall’offuscamento della casa sono Bill, un giovane reduce del Vietnam e sua moglie Martha, con la quale vive nella tenuta del padre di lei. La loro quiete familiare verrà interrotta da lì a breve dall’arrivo di due visitatori: una coppia di ex commilitoni di Bill composta da Mike (sergente) e Tony (soldato semplice). Se per Martha i due rappresentano una sorta d’innocuo doppio del marito, quest’ultimo accoglierà con riserva i nuovi arrivati, sembrando avvertire in loro qualcosa di temibile.
Ora, un moto circolare permette un reciproco svelamento fra personaggi e configurazione spaziale: le delimitazioni dell’ambiente domestico, ambiente che isola e protegge, sembrano configurarsi insieme all’ingresso dei due; parallelamente, le figure dei visitatori vanno delineandosi col prendere forma dell’ambiente che essi aiutano a evidenziare. Mike e Tony avanzano in qualcosa che non appartiene loro, che stona coi loro silenzi, coi loro modi amichevoli ma interrotti da sguardi ambigui. Sono come ectoplasmi che acquistano consistenza per contrasto, tramite quegli elementi che, donando alla casa il suo carattere “quotidiano”, si scontrano con l’anomalia della loro venuta. L’estraneità che varca la soglia abitativa ne sottolinea così la funzione di riparo, ed è grazie a questo contrasto che accediamo a uno degli elementi che sorreggono l’intera pellicola: una fenomenologia dell’abitazione e del limite, entro cui gioca un ruolo essenziale la metafisica distesa innevata che fungerà da contraltare cromatico nella prima metà della pellicola.
La neve – il “cosmo invernale” come ha scritto Bachelard – fagocita l’esterno imponendo la sua spaziatura, con essa «si ha la sensazione che si stia mettendo in moto una negazione cosmica a partire dall'universale biancore»[3]. Ma questo “fuori” non ha in sé niente di minaccioso. L’alterità dell’ambiente si rivela solo grazie all’interruzione dei due visitatori, solo a questo punto l’esterno presenterà uno spessore proprio, un carattere che Lévinas definirebbe “elementale”, rispetto al quale è possibile aderire solo mediante l’abitazione. La funzione originaria della dimora risiede infatti «nel rompere la totalità dell’elemento, nell’aprirvi lo spazio per l’utopia in cui l’“io” si raccoglie dimorando a casa sua»[4]. La proprietà, il maneggiamento degli oggetti e degli strumenti a noi familiari: questi elementi incidono lo spazio con una “distanza”, offrendo la possibilità del margine e del ripiego. Se l’immersione nell’elemento è impossibile, esso va tamponato perché ci si possa raccogliere, perché la natura «si delinei soltanto come mondo»[5].
Indifferenziazione e violenza
Se i visitatori vengono accolti da Bill con una certa preoccupazione, per Harry – il padre di Martha – rappresentano una boccata d’aria fresca rispetto alla vita di coppia che evolve timidamente a pochi metri dalla sua abitazione. Il primo elemento che gli permetterà di affacciarsi ai due è la condivisione dello spettacolo glorioso di una partita di football, la quale, frammezzata dalle sottili umiliazioni con cui Harry ammonisce Bill, ci mostra una violenza regolamentata e ben confezionata. Assistiamo a un’escalation quando da lì a poco vediamo spuntare il fucile di Mike, col pretesto di dare una lezione ai vicini per l’aggressione da parte del loro cane ai danni di quello di Harry. L’operazione andrà a buon fine, il cane verrà soppresso e seguirà un macabro corteo per riportare la carcassa di fronte alla porta dei vicini allibiti.
Contemporaneamente, Bill confessa a Martha la ragione del suo timore verso i due: in Vietnam, la truppa di Bill perquisì delle abitazioni in cerca di armi e rifornimenti, ma senza alcun risultato. Furioso per l’insuccesso, Mike prese come ostaggio una giovane vietnamita e, fingendo di scambiarla per una vietcong, la portò tra l’erba alta violentandola assieme a Tony e altri soldati. Qui le spararono, lasciando il cadavere dove l’avevano violentata. Bill si rifiutò di partecipare allo stupro e, non appena tornato all’accampamento, decise di raccontare tutto ai superiori, condannando così Mike e Tony a due anni di prigione. Il sovrapporsi del racconto di Bill all’uccisione del cane fonde due campi semantici, fusione anticipata dalle stesse parole di Bill, laddove paragona le urla della donna vietnamita ai rantoli del cane ferito: «sembrava il povero Mac, gemeva». Analogia che introduce una reversione tipicamente euripidea: come nelle Baccanti, troviamo un processo di indifferenziazione tra uomo e animale legato alla violenza essenziale della narrazione. Ora anche Bill appare inerme come il cane dei vicini e, soprattutto, potrebbe condividerne la stessa fine. Perfino gli sguardi di Mike e Tony sembrano chiarirsi retrospettivamente, sguardi ammiccanti che si riversano in predatori, occultatori di un cieco fono animale. Al pari della tragedia euripidea, tale oscillazione speculare si rivelerà il prodromo di una violenza risolutrice.
Il processo d’indistinzione evolverà nella seconda metà del film, favorito dal calare del buio, prima alterazione rispetto alla bianca e lucente linearità della pellicola. Ora Martha si trova ad ascoltare con ripugnanza i racconti di Mike sul Vietnam, incompatibili con la versione di Bill. Lui la incalza, cercando di destabilizzare le convinzioni della donna e di porre proprio Bill sotto una luce diversa: mentre lui e Tony sono considerati da molti come degli eroi, Bill ha prontamente abbandonato la zona di maggior pericolo, entro la quale, probabilmente, non se la sarebbe cavata. A questo punto, qualcosa sembra aprire un varco nelle difese di Martha avvicinandola a Mike. Il clima si fa disteso, dal giradischi parte una musica da ballo. «Dance?». La camera segue da vicino la coppia unita in un abbraccio sensuale ma tenero, mostrandoci un aspetto di Mike che non sembrava poter trasparire dalla sua aura mortifera, fino al primissimo piano della faccia di Mike appoggiata a Martha; sequenza che corona l’impossibile scissione fra le due coppie, legando l’erotico alla perdita della differenziazione.
La versione di Mike ci offre una chiave politica, ma non si tratta della politica che rimane in primo piano nel film, ovvero la denuncia nei confronti delle atrocità della guerra del Vietnam. La politica di cui Mike è testimone risulta piuttosto di matrice schmittiana, per cui «la specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind) […] senza che, nello stesso tempo, debbano venir impiegate tutte le altre distinzioni morali»[6]. In questo Mike appare fermo: la politica della guerra non può essere sussunta dalle questioni morali che lo rendono un mostro agli occhi di Bill. Se l’estraneità del nemico, la sua necessaria estraneità, determina il percepirsi di Mike come un eroe piuttosto che come un criminale, la sua assenza di rimorso verso lo stupro e l’omicidio rappresenta la tacita accondiscendenza a qualcosa che esula il singolo episodio bellico. Mike intercetta in Bill la volontà di immunizzarsi da una violenza endemica nel campo bellico ma che lo travalica, apparendo costitutiva alla vita prima che allo scenario vietnamita. Martha lo intuisce? È questo che ci suggerisce Kazan? È segretamente affascinata dalle posizioni di Mike? La sequenza sembra volerci sospendere proprio su questo punto.
Implicitamente, viene rivendicata l’amoralità della Gewalt, la stessa di cui parla Nietzsche ne Lo Stato greco, la violenza che forma il primo diritto dall’appropriazione del vincitore sul vinto. Allora, l’omicidio della vietnamita (che si ricollega ancora una volta all’uccisione del cane) si carica posteriormente di un tratto “sacrificale”:
«la violenza viene sempre prima ed è senza ragione. La spiegazione sacrificale viene dopo; è davvero sacrificale nel senso che dissimula quel “senza ragione” della violenza, cioè l’elemento insostenibile della violenza»[7]
Se la funzione del sacrificio è di proteggere le società dall’indifferenziazione, designandone e delimitandone i confini, esso non può che legarsi al Politico, in quanto operazione fondativa che dona corpo all’insostanzialità della soglia, configurando un’identità tramite la demarcazione fra un dentro e un fuori; così, in The Visitors la delimitazione spaziale – lo spazio bianco della frontiera – e la delimitazione politica – il limite posto all’indifferenziazione – sembrano rispecchiarsi vicendevolmente.
L’avvicinamento di Mike e Martha porta al suo culmine il processo d’indifferenziazione. Allora, oltrepassando un limite dissimulato, quest’ultima diventerà l’oggetto su cui la violenza segnica del film, prima disseminata, può ora condensarsi. L’abuso sessuale si ripeterà su di lei, frammezzato dall’ammonizione profetica di Tony: «lady you’re nuts, you think you can change the rules in the middle»? La duplicazione dello stupro – assieme allo stesso ritorno dei visitatori – rivela come la pellicola di Kazan si sviluppi sulla ripetizione: i due rappresentano il ritorno di un rimosso, inscenano la natura coattiva di una desimbolizzazione insostenibile. In questo modo, la conclusione della pellicola rappresenta l’ultimo tassello di una struttura circolare, in cui il finale adombrato e il silenzio della coppia ci riportano alle prime scene del film. I visitatori sono andati, nulla tornerà come prima.
La comunità lacerata
Molteplici elementi nel film di Kazan scongiurano una facile scissione morale fra Bill e i due visitatori. I tre sono probabilmente accomunati da un’innocenza impossibile, la quale, oltre a rendere Bill incerto rispetto alle sue stesse posizioni («i vietcong avrebbero fatto lo stesso»), sembra avvicinarlo a coloro che, in fondo, hanno condiviso assieme a lui i rischi e gli orrori della guerra («they were my friends! They were my buddies!»). Le figure di Mike e Tony non riescono a sottrarsi all’ambivalenza, come quando le riprese all’interno dell’abitazione ci conducono al particolare della mano di Martha che rimbocca le coperte a Mike, mostrandone la natura ibrida: usurpatore di un’intimità negatagli di diritto e al contempo figura paradossalmente angelica.
Tale stratificazione mostra come la visita dei due esuli da un lineare piano vendicativo. Sono sinceramente affascinati dalla casa e dalla rassicurante atmosfera borghese condita dalle premure di Martha[8]. Sono ugualmente sinceri quando si divertono scivolando sul laghetto ghiacciato o mentre si esaltano insieme a Harry prima della partita di football. È difficile, in fondo, distinguere nella piccola battuta di caccia che compiono per ammazzare il cane, l’aspetto ludico e cameratesco dalla semplice volontà di annientamento. Inoltre, i due si concedono alle proiezioni di Harry, permettendogli di mostrare il suo desiderio di un erede che non sia un weirdo come Bill. Tensione resa al meglio dall’inquadratura che ci mostra Mike e Harry sdraiati sul divano come padre e figlio[9], secondo episodio nel film in cui assistiamo a un desiderio filiale ambiguo e impossibile, insieme al primo piano di Mike che osserva il figlio di Bill e Martha nella culla[10].
Sono personaggi inassimilabili all’orda barbarica presente in Straw Dogs [id., Sam Peckinpah, 1971], pellicola che precede di un anno The Visitors. Sono altrettanto inassimilabili ai protagonisti di due pellicole neohollywoodiane successive al film di Kazan, ma accomunate a The Visitors per l’esposizione dell’uscita dal Vietnam: Taxi Driver [id., Martin Scorsese, 1976] e The Deer Hunter [id., Michael Cimino, 1978]. Al contrario di Travis Bickle, Tony e Mike non sfociano mai apertamente nel patologico; declinazione che rappresenterebbe, paradossalmente, una risoluzione nell’evoluzione narrativa, laddove i personaggi di Kazan sono condannati a una drammatica apertura. Inoltre, l’ambientazione chiusa e la condensazione temporale (per testimoniare la stratificazione temporale comprendente il Vietnam sarà necessario un flashback), non permettono lo sviluppo concentrico presente nel film di Cimino, dove tra il potenziale film a sé che è il prologo matrimoniale e il ritorno impossibile alla comunità, vi è nel mezzo l’incrinarsi della sostanza etica. Nel film di Kazan vediamo l’intreccio tra due generazioni belliche, ma senza che una staffetta concettuale possa rischiarare vicendevolmente le diverse Weltanschauungen.
Non vi è, infine, alcuna comunità ad accogliere Mike e Tony, mentre quella di Bill è una comunità manchevole, nella quale il suocero, nemico “accettabile” senza alcuna eredità da trasmettere, sembra un elemento accuratamente disposto per minare un continuum etico-familiare. Isolato da un’America nixoniana che lo ingloba suo malgrado e amareggiato per il tramonto di un privato epos statunitense, Harry condivide coi visitatori un futuro sbarrato, a causa di un ritiro spaziale e temporale rispetto a cui la sua professione di scrittori di libri western non potrebbe essere maggiormente indicativa.
Lo smembramento della situazione comunitaria e familiare – o il rischio di tale smembramento – che riscontriamo in The Visitors a partire dall’uso strategico dell’home invasion, è un elemento riscontrabile pressoché in tutta la filmografia di Kazan.
«Pensate, ad esempio, alla comunità insulare in Wild River [id., 1960], la cui inondazione programmata e irreversibile è annunciata proprio all'inizio del film, o alla piccola città del Midwest in Splendor in the Grass [id., 1961] che viene presto a rappresentare l'amore e la giovinezza perduti di Deanie e Bud, o anche la città minacciata dall’epidemia in Panic in the Streets [id., 1950]»[11]
Dunque, gli ultimi lavori di Kazan rappresenterebbero una radicalizzazione di questa tendenza, ma con la peculiarità di mostrare la scissione – e lo sforzo disperato verso una coesistenza impossibile – fra due realtà al contempo geografiche e morali (si pensi al collegamento fra Stati Uniti e Anatolia in America America [id., 1963] o alla stessa collisione fra Stati Uniti e Vietnam in The Visitors), laddove i primi film di Kazan sembrano caratterizzati anzitutto da una certa compattezza geografica, esemplificata dalle piccole comunità nel sud degli Stati Uniti che costellano i suoi lavori degli anni Cinquanta. In questo senso, lo scenario asettico e isolato di The Visitors rappresenterebbe l’implosione di una tensione riscontrabile in tutte le opere del regista. Scenario in cui l’isolamento da ogni prospettiva destinale ha lasciato dietro di sé soltanto una ripetizione insostenibile.
[1] La parentesi “familiare” del film ingloba anche la moglie del regista, Barbara Loden, sarà infatti il suo Wanda [id.,1970] a contribuire alla fascinazione di Kazan rispetto ai vantaggi offerti da una troupe sfoltita e da un formato inusuale per il regista: girare in 16 mm, per poi stampare la pellicola in 35 mm. [2] E. Kazan, Kazan on Directing, Alfred A. Knopf, New York 2009. [3] G. Bachelard, La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari 1975, 2006, p. 68. [4] E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980, 2018, p. 159. [5] Ivi, p. 155. [6] C. Schmitt, Le categorie del «politico», Il Mulino, Bologna 1972, p. 109. [7] R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980, p. 176. [8] È lo stesso Kazan a descriverli come dei “bravi ragazzi”: «questo film è come un passaggio senza sbocco, non puoi eluderlo. Finirete per amare i visitatori, vedrete come sono, li riconoscerete […] Così, prima ancora di rendervene conto, eccovi a provare simpatia per loro. Sono “bravi ragazzi”. Tutto il problema della bestialità della guerra è che sono le persone più “brave” a rendersi colpevoli. Le più dolci, le più adorabili, le più affettuose» (E. Kazan, Kazan par Kazan, p. 271). [9] «Amo particolarmente i momenti come quello in cui il padre e il giovane straniero, sdraiati sul canapé, si addormentano insieme, l’uno nelle braccia dell’altro. Mi piace il fatto che il padre ami tanto quel giovane e che il giovane stesso esprima tanta tenerezza quando dice: “È una ragazza carina”. Si sente che sogna d’avere una donna e una casa come quella, che non viene soltanto per vendicarsi, che i suoi sentimenti complicano la situazione. In un certo senso, è esattamente questa l’America» (Ibidem). [10] Primo piano che sembra richiamare il campo-controcampo che, in East of Eden [id., Elia Kazan, 1955], ci mostra Cal spiare nella ghiacciaia il fratello e la sua ragazza mentre sognano il loro futuro assieme, osservando una progettualità a lui inaccessibile. [11] H. Guest, Late Kazan, or The Ambiguities, in Kazan revisited, Wesleyan University Press, 2011, p. 196.
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