top of page

Watching from a distance





 

Rubrica: 33 giri

A cura di: Roberto Mura

 

*

Quello che più di ogni altra cosa rende possibile la conoscenza è l'incontro. La prossimità dei corpi e, di conseguenza, delle parole, dei pensieri e dei sentimenti. Categorizzare questo genere di fatti non è semplice, e lo è ancora di meno pensarli al di fuori di un disegno ben preciso, uno schema di intrecci e consequenzialità che portano inevitabilmente alla collisione e ciò che ne consegue. Ma se l'incontro è la conoscenza e il palesarsi delle cose, dall'altro lato del ponte sta, sempre tesa al punto di sembrare quasi fuggire ogni volta, la distanza. Essere lontani; un corpo che manca e di conseguenza con lui parole, pensieri e sentimenti. Sembrerà paradossale, ma l'unico modo per riempire il vuoto di questi fattori è utilizzare i fattori medesimi. Così è che prendono forma, da praticamente sempre, opere di ogni genere; per un bisogno di riempire, di ingozzarsi tal volta. Fino a stare male davvero se ci si riesce. La musica non è estranea a tutto ciò e anzi, avendo dalla sua parte armi ben più pesanti delle semplici parole, trova il modo non solo di annullare una mancanza, ma di rendere quella mancanza più presente della presenza stessa.


Si potrebbero perdere gli anni tentando di individuare a lungo andare frammenti e momenti che in musica hanno dato il volto più umano e profondo al vuoto lasciato da qualcosa che non c'è. Il desiderio di porre fine alla lontananza, alla mancanza e a quello che ne deriva non può che smuovere la curiosità di addentrarsi in uno schema che non è fatto di intrecci e di consequenzialità, ma di curve che non diventano cerchi e non si chiudono, proseguendo all'infinito. Procedendo per questa via, se si vuole farlo, non si può non incontrare a un certo punto del cammino un monolite che blocca la via; per potere proseguire è necessario averci a che fare.


Watching from a distance (2006) [https://www.youtube.com/watch?v=RGqUo7a7J_I] è un disco degli Warning, gruppo inglese Doom Metal che ha avuto il coraggio non solo di percorrere la strada tortuosa della solitudine, ma di tenerla in pugno versando quasi cinquanta minuti di liberazione da un dolore che a stento forse si riesce a definire. Dal titolo si intuisce già che la posizione è ben precisa, perché c'è la vista, c'è l'osservare ma c'è anche una delimitazione dell'atto. Guardare da lontano mette in chiaro le cose:




Sometimes when I watch you you seem like the same person that I once knew and watched from a distance but never able to do more than I ever would



Così si apre il disco, senza dare neanche il tempo di rendersi conto di ciò che si sta ascoltando. Il piano musicale è quello classico del Doom, con chitarre che sembrano piangere per davvero, un basso che imita battiti cardiaci rallentati e la batteria che tocca dove nessun altro avrebbe osato fare. La voce che racconta è sincera, lo si capisce immediatamente se si è in grado a propria volta di guardare da una distanza e se si sa cosa quella distanza significhi. Significa pezzi mancanti di una storia, trame che non si risolvono in una soluzione e stanno lì proprio come la mancanza; come un monolite.





Watching from a distance va vissuto come si vivono le cose che non si possono scegliere; va subito. Un racconto in cinque capitoli: Watching from a distance; Footprints; Bridges; Faces; Echoes. Non sono parole sconnesse tra di loro né casualità cronologiche. Impronte, ponti, facce ed echi; tutto questo lo si guarda da una distanza perché è l'unico modo in cui lo si può guardare. Queste cose non esistono più nella prossimità, non sono lì, vicine e conoscibili. Ricordi o spettri che tornano come uccelli migratori ogni volta che la necessità chiama. Qui la necessità, come il disco, la si subisce.


Avendo a che fare con questo lungo viaggio si è nella prospettiva giusta per potere in qualche modo accettare il fatto che l'assenza e la lontananza rendono umana ogni cosa, anche la morte. Ed è di umani che si tratta quando ci si imbatte in tutto ciò. Discostandosi da ciò che musicalmente è nato per essere subito (Doom / destino non a caso) si possono andare ad incontrare alcuni altri punti lungo il cammino.


Blue (1971) [https://www.youtube.com/watch?v=MvR7Dkg4NQU] è probabilmente il lavoro più noto di Joni Mitchell, nonché il più abbordabile, ed è un disco che affonda i propri piedi nel medesimo fango degli Warning. Definirlo semplicemente una serie di brani è riduttivo, perché c'è qualcosa di molto più grande che tiene unita l'intera impalcatura fatta di chitarre leggere, di voce e poco altro. Blue è il colore della copertina, ma è anche il colore della malinconia e della nostalgia, in qualche modo, e sono queste le conseguenze dell'avere a che fare con lui.




I remember that time you told me You said, "Love is touching souls" Surely you touched mine 'Cause part of you pours out of me In these lines from time to time

Oh, you're in my blood like holy wine You taste so bitter and so sweet Oh, I could drink a case of you, darling Still I'd be on my feet I would still be on my feet


La parte centrale di Case of you, penultima traccia del disco, forse raggiunge in questi versi il momento in cui viene espresso davvero il dolore della mancanza e il bisogno di riavere le cose. La presenza nelle vene come vino consacrato, un vino che avrebbe potuto essere bevuto tempo fa ma non ora; non più. Presente nelle vene continua a scorrere, ma come ogni cosa che scorre non può essere trattenuta né rinchiusa. Esce e va dove vuole. Probabilmente molto lontano.




Blue è un disco gentile nei toni musicali, lontano dall'ossessività lenta e ripetitiva di Watching from a distance, ma che alla pacatezza dei suoni contrappone le parole, il concetto duro e inevitabile

che mette in chiaro come non si possa tornare indietro e riottenere anche solo un momento

vissuto. Non ci sono capitoli qui, ma c'è la volontà di esprimere come sia labile il confine che separa

l'incontro dall'addio, di quanto poco basti, in termini di azioni e di tempo, per far sì che non si

possa più bere dallo stesso fiasco lo stesso vino. Ma se gli Warning e Joni Mitchell hanno assunto la posizione di chi guarda da una distanza o ricorda qualcuno o qualcosa, qualcun altro ha posto lo sguardo su di sé, rovesciando le prospettive. Rory Gallagher ha strappato il Blues dalle piantagioni e dall'America e l'ha portato in Irlanda, l'ha messo addosso ai suoi demoni e ci ha fatto quello che ha voluto. Parlare del lavoro di Rory Gallagher però non è il punto della questione, il punto della questione è capire come la distanza possa assumere un altro volto se puntata verso di sé come una pistola. A Million Miles away è un brano contento in Tattoo (1973), un pezzo sporco nei suoni e nella voce, la solita chitarra che parla e l'impalcatura di un Blues che puzza di alcol da lontano. La scena è quella del bar di un Hotel, tante persone, musicisti e barista. Nulla che abbia a che fare con la distanza o con la mancanza, perché i corpi ci sono, così come ci sono parole pensieri e sentimenti. C'è però qualcos'altro, ed è la persistente mancanza che non si può colmare né annullare, perché riguarda una presenza troppo ingombrante: la propria



There's a song on the lips of Everybody, there's a smile all around the room There's conversation overflowing, so why must I sit here in the gloom?


Come si può pensare di colmare un vuoto che esiste perché si sente la mancanza di qualcosa che è

presente fisicamente e che abita con noi e dentro di noi. Essere a miglia di distanza da sé, guardarsi

da lontano e non sapersi neanche vedere. Lontano dagli altri corpi e dalle parole, dai pensieri e dai sentimenti. Sostanzialmente solo nella più terribile delle accezioni. Non importa il tono quasi giocoso a livello musicale, quello che conta è il fatto che si è lontani da sé e non ci si ha in mano; non ci si conosce. Se viene a mancare questo non può esserci altro che distanza.

Comments


bottom of page